Indovina Chi a Downing Street, anche oggi ci si pensa domani

Mondo

Liliana Faccioli Pintozzi

E' da più di un anno, dalle elezioni anticipate del 2017, che Theresa May sembra sul punto di lasciare Downing Street. Ed è esattamente da più di un anno, dalla firma dell'accordo con il DUP, che Theresa May è, e rimane, Primo Ministro. Nonostante i tamburi di guerra.

 

Musi lunghi e lingue sciolte. Nessun capannello discreto, ma conversazioni dirette. I racconti di chi ieri sera ha partecipato alla riunione dello European  Research Group - ufficialmente una sorta di think tank, in pratica il gruppo che raccoglie i brexiter duri e puri - sembravano non lasciare spazio a dubbi: primo punto all'ordine del giorno dei discorsi "a latere" "come" e "quando" - non "se" - fare fuori la May. Decine di protagonisti, un unico dibattito. Come a dire, il momento è arrivato.

Niente di meno accurato. Neanche 12 ore dopo, a tirare il freno a mano sono arrivati gli stessi capi popolo che, almeno in teoria, dovrebbero identificare lo sfidante, della May, e uno dopo l'altro il potente Presidente dell'ERG Jacob Rees-Mogg, Steve Baker (ex sottosegretario per la Brexit), e David Davis (ex Ministro per la Brexit) hanno limato la posizione: sosteniamo Theresa, ma lei deve abbandonare il piano Chequers, il famigerato piano per una soft Brexit, visto dai puristi come un tradimento del referendum, e definito da Boris Johnson come un giubbetto suicida avvolto intorno al paese (e il detonatore in mano a Michel Barnier). Come a dire, ti diamo ancora tempo: almeno, pare di capire, fino alla conferenza del partito conservatore a fine mese.

Sempre che non ci siano sorprese. Proprio Boris, oggi, non si è fatto sentire. Ieri sera era con i "carbonari"... e la foto che campeggia su tutti  i giornali è destinata a rimanere nella storia della Brexit. Perché, nonostante i tamburi di guerra, il vicolo sembra cieco, e la soluzione non appare vicina. Ma con l'ex ministro degli esteri, nonostante i "problemi di cuore", non si può mai dire.

Quelle che sono certe, intanto, sono le regole. Per chiedere un voto di sfiducia servono 48 deputati conservatori, e secondo tutte le fonti già ci sono. Ma per vincere, il voto di sfiducia, di deputati ne servono 159; May è pronta ad andare allo scontro, e se ne dovesse uscire vincitrice come comunque è possibile visto che la sua posizione sembra essere, alla fine, la "mediazione" ideale, per le regole del partito non potrebbe essere sfidata per i 12 mesi seguenti. Insomma, questa è una carta da giocare con grande cautela.

Sullo sfondo, si assiste a una sorta di corto circuito tra deputati ed elettori. Tra i primi, alcuni di quelli che vorrebbero sostenere la soft Brexit perché maggiormente conveniente per il paese si ritrovano a sbattere i pugni sul tavolo; perché tra alcuni dei secondi, "soft" viene letto come un tradimento della Brexit, e il timore è che al prossimo giro il loro voto potrebbe passare dai Tories all'UKIP - praticamente assente dal panorama politico anche "grazie" allo spostamento dei conservatori su posizioni più radicali rispetto al dossier europeo.

Caso raro, tra l'altro, nel panorama politico. Normalmente, alle urne a vincere sono i messaggeri "originali" - di qualsiasi tipo di messaggio, europeista o euroscettico, globalista o nazionalista. Ma forse, semplicemente, nel Regno Unito si è tornati alle origini. A quel dibattito pro e contro l'Europa unita che ha sempre straziato il partito conservatore. E che ora ha preso il sopravvento - tanto che qualcuno comincia ad avvisare: qui rischiamo la spaccatura, sarà difficile tornare indietro. Intanto i tamburi continuano a rullare.

 

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