La candidata democratica guarda alla Cina. Il tycoon vuole invece un asse con il Cremlino. LO SPECIALE
I grandi accordi commerciali sono la causa del declino americano? L’Europa è un alleato indiscutibile? Mosca è un interlocutore o un temibile rivale degli Stati Uniti? Sono questi gli interrogativi in materia di politica estera a cui Hillary Clinton e Donald Trump tentano da mesi di rispondere, talvolta però senza convincere gli elettori.
«Il mondo è cambiato molto durante l’era Obama, il presidente ha dato precedenza alla crisi economica che stava piegando il Paese e questo ha un po’ indebolito la leadership americana nel mondo - spiega Noel Lateef, presidente di Foreign Policy Association -. Inoltre si sono innescate spinte deglobalizzanti che hanno aperto spazi a forze populiste e protezionistiche come quelle che si battono contro i grandi accordi commerciali. Un esempio è il Nafta, la zona di libero scambio creata tra Usa, Canada e Messico, e considerata da Trump causa del malessere economico e occupazionale dell’America».
Posizioni quelle anti «free-trade» che però non sono condivise dai diretti interessati. «Proprio qui da noi alla Fpa il presidente del Messico qualche giorno fa, citando Abramo Lincoln, ha detto: “Quando le cose vanno bene al tuo vicino vanno bene anche a te”». E questi sono i valori di cui si fa garante invece Hillary Clinton secondo cui erigere un muro al confine col Messico per fermare l’arrivo di clandestini, uno dei cavalli di battaglia del candidato repubblicano, è addirittura una violazione dei diritti fondamentali, oltre che una mossa controproducente. Un esempio che dimostra l’abissale distanza tra i due candidati, da qualunque angolatura li si veda.
Trump viene dal settore privato, Hillary dal pubblico, lui mette in discussione l’alleanza europea, lei vuole rilanciarla, trovando nella Nato l’interlocutore militare e nell’ Ue quello politico. Il tycoon dice che Putin è un partner strategico per gli Usa, Clinton invece denuncia le ingerenze del Cremlino nella campagna elettorale come un pericolo per la sicurezza nazionale. L’unico punto in comune in fatto di politica estera è la ferma convinzione di non dover inviare truppe di terra in Siria, ma mentre Trump è convinto che il presidente Assad, assieme a Iran, Hezbollah e Russia, sia nel giusto perché combattono e uccidono terroristi dell’Isis, Hillary punta sui ribelli moderati e dice che occorre fermare il Raiss di Damasco.
In Iraq l’ex First Lady vuole invece armare i Peshmerga, i guerrieri curdi del Nord, progetto che affonda le sue radici nella dottrina di George Bush mutuato dopo la prima guerra del Golfo. In oriente Hillary punta a un dialogo con la Cina, quella che Trump ritiene la rovina degli Usa per le produzioni lì delocalizzate, mentre ha già annunciato che inviterebbe il leader nordcoreano Kim Jong-Un alla Casa Bianca.
Sempre nel Vecchio Continente infine, Trump ha il debole per gli inglesi della Brexit, mentre Hillary punta a una partnership rosa con la Merkel. Continuità, nel solco dell’operato di Obama (ma con lievi variazioni) rispetto a cambiamento quindi: ma per l’America del dopo Obama quali saranno le priorità sul piano internazionale? «Il prossimo presidente degli Stati Uniti deve risolvere alcuni grandi problemi, come la questione dei cambiamenti climatici, i conflitti, ma anche una ripresa economica più inclusiva - spiega Aldo Civico, antropologo e consulente della campagna di Obama e Hillary Clinton -. Ma soprattutto deve mettere in relazione fra loro tutti questi fattori, con un approccio di sistema e soprattutto creando partnership e lavoro comune».
E saranno proprio le Nazioni Unite del neosegretario generale Antonio Guterres (ieri è stata ufficializzata la sua nomina) uno dei primi test sul futuro della politica estera americana. Quando il nuovo presidente Usa dinanzi ai 193 Paesi membri, deciderà se proseguire sulla linea della cooperazione e del multilateralismo o se l’America tornerà a decidere da sola, unilateralmente, senza render conto a nessuno.