Brexit, istruzioni per l'uso: le possibili conseguenze del referendum

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Valeria Valeriano

(Getty Images)

Giovedì 23 giugno, circa 50 milioni di cittadini britannici sono chiamati a scegliere se rimanere nell'Unione europea o uscirne. Perché si vota, le ragioni dei due schieramenti, gli eventuali scenari

“Leave” o “Remain”? Giovedì 23 giugno, è il giorno del referendum sulla Brexit: milioni di cittadini britannici sono chiamati a decidere se il Regno Unito deve uscire dall’Unione europea o rimanerci (GLI AGGIORNAMENTI IN TEMPO REALE SUL VOTO E I RISULTATI). Ecco quello che c’è da sapere sulle consultazioni che potrebbero cambiare il volto dell’Ue.

 

Cosa significa Brexit


Il termine Brexit è formato dalla crasi delle parole “Britain” ed “Exit” e si riferisce all’eventuale uscita del Regno Unito dall’Europa (proprio come, in passato, era stata usata l’espressione “Grexit” per indicare l’uscita, poi scongiurata, della Grecia dall’Eurozona). La decisione sul rimanere o meno nell’Ue è stata demandata ai cittadini britannici attraverso il referendum consultivo.

Il quesito


“Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?” (“Il Regno Unito deve rimanere un membro dell’Unione europea o deve abbandonare l'Ue?”): è questo il quesito che i britannici si troveranno sulla scheda. Gli elettori hanno due alternative: barrare la casella con la risposta “Remain a member of the European Union” (per restare nell’Ue) oppure  quella con la scritta "Leave the European Union” (per lasciarla).

Quando si vota e chi vota


Urne aperte giovedì 23 giugno dalle 7 alle 22 (8-23, ora italiana). Hanno diritto di esprimere il loro parere, dopo essersi registrati nelle liste elettorali, circa 50 milioni di cittadini maggiorenni britannici, irlandesi e del Commonwealth che vivono nel Regno Unito e quelli residenti a Gibilterra, oltre a coloro che sono espatriati dal Paese da non più di 15 anni. Esclusi i cittadini dei Paesi Ue residenti in Gran Bretagna, che votano alle elezioni europee e amministrative. Il referendum è di tipo consultivo e non serve un quorum per renderlo valido. Si vota in 382 circoscrizioni: 326 in Inghilterra, 32 in Scozia, 22 in Galles, una in Irlanda del Nord e una a Gibilterra.

I risultati cominceranno ad arrivare tra le 4 e le 7 (5-8 italiane) di venerdì, il verdetto definitivo sarà annunciato dalla presidente della commissione elettorale, Jenny Watson, alla Manchester Town Hall.

 

Chi ha indetto il referendum


Durante la campagna elettorale del 2015, David Cameron aveva promesso che se fosse stato rieletto (com’è successo) avrebbe indetto un referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea. A spingerlo versa questa direzione erano state le pressioni di diversi membri del suo partito (conservatore) e dei nazionalisti dell’Ukip: secondo loro molto cose sono cambiate in Europa dall’ultima consultazione, nel 1975, ed era quindi tempo di organizzarne un’altra. All’inizio il primo ministro britannico era a favore dell’uscita dall’Ue se le autorità europee non avessero accolto alcune sue richieste su temi di politica estera ed economica. Dopo una serie di negoziati, a febbraio Cameron si è detto soddisfatto delle concessioni ottenute dall’Ue ed è diventato il principale sostenitore del “Remain”.

Le ragioni del “Remain”


Oltre a Cameron, sono contro la Brexit 16 ministri del suo esecutivo, il cancelliere dello Scacchiere George Osborne, alcuni membri del partito conservatore (che ha lasciato libertà di scelta ai suoi elettori), la maggior parte del partito laburista, lo Scottish national party, i LibDem e i Verdi. Appoggiano la campagna "Britain stronger in Europe" anche leader internazionali come Angela Merkel, Francois Hollande e Barack Obama. Il fronte del “Remain” crede che il Paese sarebbe molto danneggiato dalla Brexit. Posti di lavoro, commercio, crescita economica, sicurezza: sono tutti aspetti che, sostengono, traggono vantaggio dalla permanenza nell’Ue. Il premier Cameron ha dichiarato che l’uscita sarebbe disastrosa per il Regno Unito e metterebbe a rischio sanità, pensioni, difesa e sterlina.

Le ragioni del “Leave”


Anche il fronte del “Leave” è guidato da un conservatore, l’ex sindaco di Londra Boris Johnson. Con lui ci sono anche Michael Gove, ministro della Giustizia, altri 4 membri del governo Cameron, alcuni esponenti dei Tory e alcuni deputati laburisti. Tra i partiti a favore della Brexit ci sono piccole formazioni radicali e, soprattutto, l’Ukip di Nigel Farage. I sostenitori dell’uscita ritengono che l’Ue imponga troppe norme, soprattutto a livello commerciale e di affari, e che stia frenando lo sviluppo del Regno Unito. Vorrebbero recuperare i pezzi di sovranità ceduti all’Europa, avere più libertà nella scrittura delle leggi, poter gestire liberamente l’immigrazione e frenare la libera circolazione per impedire che troppe persone (anche della stessa Ue) arrivino nel Paese.

I sondaggi


Anche se il malcontento per le politiche europee e l'euroscetticismo sono in crescita nel Paese, i sondaggi ritengono che la maggior parte dei cittadini britannici voterà contro la Brexit. Nelle ultime settimane, tuttavia, il distacco tra i due schieramenti si è molto ridotto e qualcuno parla di sostanziale parità. La campagna elettorale è stata segnata anche da un episodio drammatico: l’omicidio della deputata laburista Jo Cox, sostenitrice della permanenza nell’Ue, uccisa da un estremista di destra il 16 giugno.

La prima exit


Se vince il “Leave”, il Regno Unito sarà il primo Stato membro a lasciare l’Unione europea. Non ci sono precedenti. La cosa che più si avvicina a questo scenario risale al 1982: la Groenlandia, che fa parte della Danimarca ma gode di uno status particolare di autonomia, votò tramite referendum per l’uscita dall’Ue con il 52% dei voti a favore.

Una storia lunga oltre 40 anni


Il Regno Unito fa parte dell’Unione europea dal 1972: il 22 gennaio firmò il Trattato di adesione, il 16 ottobre la ratifica fu approvata dal Parlamento britannico e il giorno dopo promulgata dalla regina, il primo gennaio 1973 il Paese divenne membro della Comunità europea. Nel 1975 fu organizzato un referendum sulla Cee e il 67,2% degli elettori britannici scelse di rimanere dentro. L’uscita dall’Ue è prevista dall’articolo 50 (la cosiddetta “clausola di ritiro”), introdotto dal Trattato di Lisbona nel 2009: prima di allora non era prevista la possibilità per uno Stato membro di ritirarsi. L’articolo definisce i termini del ritiro unilaterale volontario, un diritto che non richiede nessuna giustificazione.

Se vince il “Leave”


Il risultato del referendum non è vincolante. In teoria, anche se vincesse la Brexit, il Parlamento britannico potrebbe decidere di non uscire dall’Ue. In pratica, però, si seguirà il volere del popolo. In caso di trionfo del “Leave”, il premier Cameron (che potrebbe anche doversi dimettere vista la sua campagna per il “Remain”) demanderà probabilmente al Parlamento, che ratificherà la decisione e inizierà la procedura d’uscita. Seguiranno almeno due anni di negoziati, durante i quali il Regno Unito rimarrà ancora parte dell’Ue (continuerà a votare e prendere decisioni, ma sarà escluso dalle riunioni sulla Brexit). Per venerdì 24 è già stato programmato un incontro a Bruxelles tra i presidenti della Commissione, Jean-Claude Juncker, del Consiglio europeo, Donald Tusk, del Parlamento europeo, Martin Schulz, e con il premier olandese Mark Rutte (presidenza di turno del Consiglio dell'Ue). Già previsti una sessione plenaria straordinaria del Parlamento europeo e, il 28 e 29 giugno, un vertice dei capi di Stato e di governo. Potrebbe essere questa la prima occasione per Cameron di chiedere al Consiglio europeo l’attivazione dell’articolo 50: in questo caso scatterebbe il conto alla rovescia dei due anni massimi previsti per negoziare l’uscita.

Dopo il via all’articolo 50


Attivato l’articolo 50, comincerebbe il negoziato per l’uscita del Regno Unito. Probabilmente verrebbe gestito dalla Commissione Ue su mandato del Consiglio. Spetterebbe a quest’ultimo e al Parlamento Ue dare o meno l’ok all’accordo. Se dopo due anni non fosse stata raggiunta l’intesa, o il Regno Unito cesserebbe di colpo di essere membro o, dopo decisione unanime degli altri Stati, potrebbe avere più tempo per chiudere. Un Paese uscito, comunque, può chiedere di aderire di nuovo all’Unione.

Cosa cambierebbe con la Brexit


Uscire dall’Ue è una procedura lunga e complicata quindi, se la Brexit diventasse realtà, nei giorni immediatamente successivi cambierebbe poco o nulla. Londra, tra le prime cose, dovrebbe modificare la sua legislazione nazionale per rimpiazzare la tante leggi derivanti dalla sua partecipazione all'Ue, a cominciare dal settore della finanza. Uno dei principali problemi da affrontare, poi, sarebbe la riscrittura dei trattati che regolano i rapporti tra Regno Unito e il resto dell’Unione: oltre all’accordo per il ritiro dell’Uk, quindi, dovrebbe partire un negoziato sulle relazioni post-Brexit. Le due trattative potrebbero andare in parallelo, ma difficilmente si chiuderebbero in un paio d’anni. Il presidente Ue Tusk ha parlato di “7 anni almeno”, il governo britannico di “un decennio o più”. Tutto dovrebbe essere rinegoziato: dagli accordi commerciali ai programmi di ricerca e per le pmi, dall'Erasmus alle norme di conformità dei prodotti. Altri nodi da sciogliere riguarderebbero le centinaia di migliaia di cittadini europei che lavorano nel Regno Unito e di britannici che lavorano nell’Unione Europea, le aziende con sedi o filiali nel Paese che potrebbero subire cambiamenti nella tassazione e ridurre il personale o spostarsi sul continente, i funzionari britannici dell’Ue, i programmi dell’Unione in corso, i fondi già assegnati. A rendere la situazione più difficile potrebbe essere anche la volontà dell’Ue di “punire” il Regno Unito, ad esempio con dazi particolari, per disincentivare altri Paesi ad uscire.

I possibili modelli


In caso di Brexit, l’ipotesi più semplice per il Regno Unito sarebbe unirsi all'Islanda o alla Norvegia come membro dello Spazio Economico europeo (in modo da avere accesso al suo mercato interno). Oppure potrebbe scegliere il modello della Svizzera, che ha concluso più di un centinaio di accordi di settore con l'Unione. Tra le altre opzioni, un accordo di libero scambio con l'Ue o un'unione doganale come con la Turchia. In assenza di un accordo, il Regno Unito diverrebbe semplicemente, dalla data di recesso, un Paese terzo nei confronti dell'Ue, come gli Usa o la Cina.

Gli effetti economici


La Brexit rimane un'incognita non solo politica, ma anche economica e finanziaria. Molti economisti e istituzioni concordano sul fatto che nel breve-medio termine l’economia britannica ed europea subirebbe un danno. I pareri su quello che potrebbe succedere, però, non sono unanimi. Al di là delle turbolenze dei mercati, molte delle conseguenze, anche sui risparmiatori, dipenderebbero dal comportamento delle banche centrali. Tra gli scenari possibili c’è il crollo della sterlina e un rialzo dei tassi a catena, mutui e prestiti più cari anche in Ue, spread in salita, recessione. Si potrebbe registrare, se i trattati fossero molto punitivi, una diminuzione delle esportazioni nel Regno Unito: un danno anche per l’Italia, che è tra i principali partner commerciali del Paese.

 

 

Maratona Sky TG24

“Brexit in o out?” è il titolo dello speciale in onda dalle 22.30 mercoledì 23 giugno alle 12 di giovedì 24 giugno, in onda sui canali 100 e 500 di Sky e su Sky TG24, canale 50 del DTT e in streaming su questo sito.

Durante la no stop fiume, Sky TG24 trasmetterà in diretta anche contenuti e approfondimenti dell’emittente britannica Sky News, con cui condividerà dati e grafiche aggiornate.

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