Baltimora, il deputato Cummings: "Può succedere dovunque"

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Liliana Faccioli Pintozzi

Il deputato Elijah Cummings - Foto: Getty

Da vent'anni è il rappresentante al congresso della città teatro degli scontri. Non giustifica le violenze ma spiega: "C'è troppa sfiducia nelle forze dell'ordine. E' la battaglia per i diritti civili di questa generazione"

C’è stata la madre che ha preso a ceffoni il figlio sedicenne che tirava sassi contro la polizia e lo ha portato via dalle proteste per un orecchio, per poi spiegare “non voglio che diventi il prossimo Freddie Gray”. E la sua paura, la sua reazione, spiegano meglio di mille trattati la situazione “sul campo”. 
C’è stato il veterano del Vietnam, che - da solo – si è messo tra poliziotti e manifestanti, dando le spalle ai primi e urlando ai secondi “andate a casa” perché, le sue parole, “non hanno rispetto per niente e nessuno, sono arrabbiati e hanno ragione ma stanno distruggendo il quartiere che amo, stanno distruggendo tutto quello che abbiamo”. 
La madre e il veterano, a rappresentare le “altre” anime di Baltimora – “altre” rispetto ai manifestanti che hanno messo a ferro e fuoco la città lunedì notte; “altre” rispetto a chi nega del tutto il problema, e in strada vede sempre e solo teppisti.
E poi c’è stato, e c’è ancora, Elijah Cummings.



In città, dove è nato e cresciuto, e dove vive nello stesso quartiere della sua giovinezza, lo conoscono tutti; d’altra parte è dal 1996 che li rappresenta nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, eletto deputato con il Partito Democratico per dieci volte consecutive e con percentuali bulgare, mai inferiori al 65%. Ma il paese, e il mondo intero, hanno imparato a conoscerlo in questi giorni. E lui è diventato l’interprete “ufficiale” delle proteste, e delle violenze, di Baltimora.

Un interprete che non giustifica gli incendi e i saccheggi ma che spiega le proteste e la loro origine, le contestualizza fotografando la sfiducia nei confronti delle forze dell’ordine, le comprende. “Questa, dice il deputato, è la battaglia per i diritti civili di questa generazione; questo è il loro Voting Rights”. Lui, ai tempi di Martin Luther King, era solo un ragazzino afroamericano. Classe 1951, all’epoca il Maryland non era certo paragonabile ad Alabama, Georgia o Louisiana. Eppure, la scuola di Elijah era una scuola segregata; la sua piscina, una piscina segregata; per strada era normale che venisse colpito con bottiglie o sassi; e durante il coprifuoco del 1968, quello seguito agli scontri provocati dall’assassinio di Martin Luther King, era stato fermato più volte dalla polizia di ritorno dal lavoro. Proprio per ascoltare MLK alla radio il piccolo Elijah tornava di corsa a casa  dalla chiesa la domenica mattina; ma l’impressione è che le vere lezioni, quelle che hanno guidato la sua vita personale e la sua azione politica, siano venute dal padre.

Che lavorava come manovale, che in fabbrica veniva discriminato, e che pur di non portare rabbia, sconforto e desiderio di vendetta dentro casa aspettava a rientrare anche un’ora, la sera, seduto nella sua macchina parcheggiata nel suo vialetto. “Une delle tante cose che ho imparato da lui, raccontava il politico in un’intervista di alcuni anni fa, è di non parlare mai quando si è arrabbiati. Quando lo fai, chi ti ascolta sente solo il tuo tono di voce, non coglie il tuo messaggio. Soprattutto, tu perdi di vista il quadro più ampio. Rimani prigioniero di chi stai combattendo, e dimentichi per cosa  stai combattendo – che poi è la cosa davvero importante”.

Parole, e concetti, che se potesse spiegherebbe ai ragazzi di Baltimora, uno per uno. I “criminali” e i “teppisti”, i pacifici e gli arresi. “Guardando loro rivedo me stesso” dice ancora Elijah; che investe della necessaria risposta tutta la comunità, tutto il paese, e ne fa una questione generazionale: “non vogliono solo essere ascoltati”, spiega, “vogliono sapere che farai qualcosa per alleviare la loro sofferenza. Lottano per il proprio futuro, e hanno l’impressione di non riuscire a toccarlo. Siamo noi adulti che dobbiamo fare qualcosa”. Più istruzione, è la sua risposta. E rilancia: “Baltimora potrebbe accadere ovunque”.

Perché Baltimora non è Ferguson, che non è Cleveland che a sua volta non è New York. Così come non lo è Charleston o Detroit. Città diverse, scenari diversi. Diverse le età delle vittime, diversi i gradi di degrado cittadino; diverse le circostanze, diverse le ricostruzioni. Ma il comune denominatore è sufficiente: afroamericano disarmato ucciso dalla polizia. Le proteste arrivano di conseguenza, e – appunto – “Baltimora potrebbe accadere ovunque”.  

Proteste spesso violente, ma quello è solo il dito. La luna è la questione razziale intrecciata a povertà, disoccupazione, pessima istruzione pubblica, criminalità diffusa, violenza della polizia. La luna sono i numeri, che a Baltimora per esempio raccontano dal 2011 ad oggi di più di 100 denunce contro la polizia per “brutalità”, e di oltre 6 milioni di dollari pagati dalla città per patteggiamenti.
Il dito sono qualche centinaia di ragazzi incappucciati che per 24 ore sfasciano tutto e sfogano così la propria rabbia. La luna, sono le migliaia di adulti, giovani e bambini che in pieno giorno sfilano per le strade, chiedendo giustizia e chiedendosi “sarò io, il prossimo?”.

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