Tibet: sul tetto del mondo, tra repressione e progresso

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La terrazza del tempio del Jokhang a Lhasa, su cui sventola la bandiera cinese
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Mentre i riflettori sono puntati sulle proteste di Hong Kong, nella Regione autonoma i monasteri sono presidiati dalla polizia e una sola immagine del Dalai Lama può costare il carcere. Ma Pechino celebra il progresso economico e le infrastrutture

di Giulia Floris

I monaci del monastero tibetano di Sera, a pochi chilometri dalla capitale Lhasa, dibattono animatamente sotto i flash continui delle foto dei turisti (moltissimi i cinesi), sbalorditi e incantati. Una volta erano migliaia quelli che vivevano e pregavano in questo monastero, in gran parte distrutto dalla Rivoluzione culturale cinese e poi ricostruito, oggi sono poche centinaia.
La scena cui assistiamo, alla fine di agosto, si tiene tutti i pomeriggi per circa un’ora nel cortile del monastero e riassume bene le contraddizioni della Regione Autonoma del Tibet. Quello che sembra un momento di libertà religiosa, fa anche i conti con l’occupazione cinese, che presidia con un posto di polizia tutti i monasteri, incassa i biglietti di ingresso e sottopone il culto buddista e la vita dei tibetani a moltissime restrizioni.

Mentre infatti gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulle proteste di Hong Kong, il Tibet fa i conti ogni giorno con il controllo e le limitazioni imposte da Pechino e, nel corso dell’itinerario via terra dalla Capitale Lhasa al confine col Nepal, abbiamo toccato con mano la fatica di una cultura che cerca di preservarsi e l’inarrestabile processo di sinizzazione che la attraversa.

Nella stessa Lhasa il quartiere tibetano, che si sviluppa nella vie intorno al tempio del Johkang, è circondato per il resto da quella che sembra una città cinese a tutti gli effetti. Il palazzo del Potala, un tempo residenza del Dalai Lama, è oggi svuotato di ogni significato religioso, e ridotto a mero sito turistico.

La devozione dei tibetani salta immediatamente agli occhi nei tanti monasteri buddisti della regione, sempre affollati di pellegrini. C’è chi porta i bambini per una benedizione, chi offre birra d’orzo o fiori davanti alle statue più venerate. Moltissime banconote di piccolo taglio sono abbandonate come offerte ai monaci, che vivono solo di elemosina. I fedeli compiono, rigorosamente in senso orario, i circuiti di pellegrinaggio intorno ai luoghi sacri, mentre fanno girare le ruote di preghiera, che ricordano loro il ciclo di reincarnazioni della vita.

Tra coloro che parlano inglese, c’è chi sfida la paura e il rischio concreto della prigione, per raccontare agli stranieri la "reale situazione del Tibet". Ogni immagine del Dalai Lama è bandita e per una sola foto nella propria casa si potrebbero aprire le porte del carcere. "Tutti vogliamo che il Dalai Lama torni, ma questo non accadrà mai", è la amarezza nelle loro parole. "Vogliamo solo essere liberi di essere buddisti, ma questa non è libertà".

La presenza cinese si avverte ovunque. I controlli all’ingresso dei luoghi di culto e delle cittadine sono continui ed estenuanti, le bandiere cinesi sventolano forzatamente su ogni fattoria, internet è censurato in modo da non cercare notizie "scomode". Ma la tv cinese racconta una storia del tutto diversa. Celebra l’innegabile progresso economico portato nella regione, le nuove strade asfaltate, i palazzi da decine di piani, il modernissimo treno appena inaugurato tra Lhasa e Shigatze (IL VIDEO).

Prigionieri nel loro Paese, i tibetani, per cui non è mai stato facile lasciare la regione, hanno subito restrizioni ancora maggiori, fino alla revoca del passaporto, dopo le proteste del 2008 e non possono recarsi fuori dalla loro terra, se non in Cina. Non possono visitare nemmeno il vicino Nepal, dove si trova la città natale del Budda, e tantomeno l’India dove vive il Dalai Lama. In molti hanno perso la speranza di riabbracciare chi è riuscito a fuggire clandestinamente dal Paese: madri che temono di non rivedere più i loro figli, fratelli e sorelle che non si riabbracceranno mai.
Perché, chiediamo, il Tibet è così importante per la Cina? "Il turismo, le nostre montagne e soprattutto le nostre miniere" è la spiegazione dei tibetani. E ancora: i cinesi qui "occupano molti posti importanti".

Sui numeri della presenza cinese in Tibet gli unici dati ufficiali disponibili sono quelli del censimento cinese del 2010, secondo cui la Regione autonoma è abitata da circa 3 milioni di persone e per il 90% dagli stessi tibetani. Ma, come spiega il governo tibetano in esilio, contattato da SkyTG24.it, "dati gli incentivi e i vantaggi dati ai migranti cinesi nella zona tibetana, il numero di cinesi effettivi nel Tibet storico (che comprende una zona ben più ampia della Regione autonoma, ndr) potrebbe essere scioccante" e superare di gran lunga il numero dei tibetani, riducendo questi ultimi a una minoranza.

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