In un libro con D. Lyon (Laterza), il sociologo affronta il tema della sorveglianza al tempo dei social network: “La tutela dei dati è stata una vittoria di Pirro: ha colonizzato la sfera pubblica ma a prezzo del diritto alla segretezza”. ESTRATTO
di Zygmunt Bauman
C’è una profonda differenza tra l’idea premoderna (medievale) di confessione – intesa prima e al di sopra di tutto come ammissione di colpa riguardo a qualcosa di già noto ai torturatori del corpo o dello spirito, ammissione che si traduceva in una riaffermazione o riconferma della verità come attributo dei superiori pastorali – e la nozione moderna della confessione come manifestazione, esteriorizzazione e affermazione di una «verità interiore», di un’autenticità dell’«io», fondamento dell’individualità e della privacy individuale.
Nella pratica, tuttavia, l’avvento dell’attuale società-confessionale è stato un fatto ambivalente. Ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione assolutamente moderna che è la privacy, ma anche l’inizio della sua vertiginosa caduta dalle vette della gloria. In realtà il trionfo della privacy è stato una vittoria di Pirro: essa ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma a prezzo del diritto alla segretezza, che è la sua caratteristica essenziale e il più caro e gelosamente difeso dei suoi privilegi. Un segreto, come altre categorie di beni personali, è per definizione una parte di conoscenza che non si può condividere con altri se non sotto rigoroso controllo. La segretezza traccia e segna il confine, per così dire, della privacy: della sfera, cioè, che si considera proprio esclusivo dominio, territorio sottoposto alla propria piena sovranità, che conferisce il potere pieno e indivisibile di decidere «che cosa e chi sono » e consente di lanciare e rilanciare campagne per ottenere e difendere il riconoscimento e il rispetto di tali decisioni.
Tuttavia, la repentina inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri progenitori è che abbiamo perso la grinta, la forza e soprattutto la volontà di perseverare nella difesa di quei diritti, indispensabili mattoni costitutivi dell’autonomia individuale. Quel che oggi ci spaventa non è tanto la possibilità di un tradimento o di una violazione della privacy, quanto il suo opposto, il chiudersi delle vie d’uscita da essa. L’area della privacy è diventata un luogo di reclusione e il titolare di questo spazio privato è condannato a cuocersi nel suo brodo, segregato in una condizione contrassegnata dall’assenza di ascoltatori entusiastici che non vedono l’ora di estrarre e strappare i nostri segreti dai forzieri della privacy, esibirli pubblicamente e trasformarli in una proprietà condivisa da tutti e che tutti desiderano condividere. Sembra che non avvertiamo più alcuna gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti adatti a esaltare il nostro ego, attirando l’attenzione dei ricercatori e degli autori dei talkshow televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle copertine delle riviste stampate su carta patinata.
«Al cuore del social networking c’è uno scambio di informazioni personali». Gli utenti sono ben contenti di «rivelare dettagli intimi della propria vita personale», di «postare informazioni accurate» e di «condividere fotografie». Si stima che il 61% degli adolescenti britannici di età compresa tra i 13 e i 17 anni «abbia un profilo personale su un sito di networking» che consente di «socializzare online».
In Gran Bretagna, dove l’utilizzo diffuso di apparecchiature elettroniche d’avanguardia è indietro di vari cyber-anni rispetto all’Estremo Oriente, gli utenti forse sono ancora convinti che il social networking sia espressione della loro libertà di scelta e, addirittura, che sia uno strumento di ribellione e autoaffermazione giovanile. Ma in Corea del Sud, per fare un esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già correntemente mediata dall’elettronica (o meglio, dove la vita sociale si è già trasformata in vita elettronica o cyber-vita e viene trascorsa perlopiù in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare, e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa), i giovani sanno bene di non avere la minima scelta; nel luogo in cui vivono, condurre la propria «vita sociale» in modalità elettronica non è più una scelta, ma una necessità: prendere o lasciare. La «morte sociale» attende quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del cyber-mercato sudcoreano della «cultura show-and-tell».
Sarebbe tuttavia un grave errore credere che l’impellente bisogno di mostrare in pubblico il proprio «io interiore» e la disponibilità ad assecondare quel bisogno siano manifestazioni di un’urgenza e dipendenza peculiare, puramente generazionale e correlata all’età degli adolescenti, che è naturale scalpitino per metter piede nella «rete» (termine che sta rapidamente subentrando a «società» sia nel discorso delle scienze sociali, sia nel parlare corrente) e per restarvi, anche se non sanno bene come fare per riuscirci. La nuova tendenza alla confessione pubblica non si può spiegare, almeno in via esclusiva, con fattori «specifici dell’età». Così Eugéne Enriquez ha sintetizzato recentemente il messaggio che emerge dai crescenti segnali provenienti da tutti i settori del mondo liquido-moderno dei consumatori:
Solo se si tiene a mente che ciò che in precedenza era invisibile – l’intimità, la vita interiore di ciascuno – è chiamato ora a esibirsi sul palcoscenico pubblico (in primo luogo sugli schermi tv, ma anche sulla scena letteraria) si comprende che chi ha a cuore la propria invisibilità è destinato a essere respinto, emarginato o sospettato di aver commesso un crimine. La nudità fisica, sociale e psichica è all’ordine del giorno.
I teenager muniti di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti che si formano e vengono formati all’arte di vivere in una società-confessionale, una società contraddistinta dal fatto di aver cancellato il confine che separava un tempo pubblico e quello privato, di aver trasformato l’esibizione pubblica del privato in una pubblica virtù e in un pubblico dovere e di aver spazzato via dalla comunicazione pubblica tutto ciò che non si lascia ridurre a confidenza privata e tutti coloro che rifiutano di confidarsi. Già alla fine degli anni Venti, quando la trasformazione della società dei produttori in società di consumatori era ancora allo stadio embrionale, o tutt’al più iniziale, e dunque sfuggiva agli osservatori meno sensibili o lungimiranti, Siegfried Kracauer, pensatore dotato di una straordinaria capacità di cogliere i contorni appena abbozzati di tendenze che prefiguravano un futuro ancora sommerso in una massa informe di mode e manie passeggere, notava:
La corsa ai tanti istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello? È il titolo di un opuscolo che è stato recentemente lanciato, e che secondo la pubblicità apparsa sui giornali insegna i mezzi «con cui apparire giovani e belli subito e a lungo».
Le abitudini emergenti registrate da Kracauer negli anni Venti come peculiare curiosità berlinese si sono propagate come un incendio nel bosco fino a trasformarsi in una routine quotidiana (o almeno in un sogno) in tutto il mondo. Quasi ottant’anni dopo, Germaine Greer ha potuto osservare che «persino nelle lande più remote della Cina nord-occidentale le donne hanno smesso di indossare abiti simili a pigiami e preferiscono reggiseni imbottiti e gonne civettuole, si arricciano e si tingono i capelli e risparmiano per acquistare cosmetici. L’hanno chiamata liberalizzazione».
Le ragazze e i ragazzi che mettono in mostra avidamente ed entusiasticamente le proprie qualità sperando di attirare l’attenzione e possibilmente di ottenere il riconoscimento e l’approvazione necessari per non essere esclusi dal gioco della socializzazione; i potenziali clienti che solo spendendo di più e ampliando i propri massimali di credito possono guadagnarsi un servizio migliore; gli aspiranti immigrati che si danno da fare per mettere insieme «punti» e dimostrare così che i loro servizi sono richiesti, nella speranza che in tal modo la loro domanda venga accettata: tutte e tre queste categorie di persone, apparentemente così diverse, e tante altre categorie di persone costrette a vendersi sul mercato e in cerca del migliore offerente sono allettate, spronate o costrette a pubblicizzare una merce attraente e desiderabile facendo qualunque cosa, con ogni mezzo a disposizione, per accrescere il valore di mercato dei prodotti che vendono. E la merce che sono incitate a mettere sul mercato, a pubblicizzare e a vendere sono proprio loro stessi.
Essi sono promotori di merci, e al tempo stesso le merci che promuovono. Sono la mercanzia e il suo agente commerciale, il prodotto e il suo commesso viaggiatore (esperienza imbarazzante, in cui non faticherà a riconoscersi qualsiasi accademico che abbia mai fatto domanda per una cattedra o chiesto finanziamenti per le sue ricerche). Tutti costoro, quale che sia la categoria in cui li inseriscono i compilatori di statistiche, abitano nello stesso spazio sociale chiamato mercato. Indipendentemente dalla voce in cui gli archivisti governativi o gli autori di inchieste giornalistiche classificano le loro preoccupazioni, l’attività cui si dedicano – per scelta, necessità o entrambe, come accade quasi sempre – è il marketing. La prova che devono superare per poter aspirare al riconoscimento sociale cui ambiscono li costringe a trasformarsi in merci, in prodotti capaci di suscitare attenzione e di attrarre domanda e clienti.
© 2013, Zygmunt Bauman e David Lyon - Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Tratto da Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto Potere, Laterza, pp. 162, euro 16
Zygmunt Bauman è uno dei più noti e influenti pensatori al mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida», di cui è uno dei più acuti osservatori. Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia, per i tipi di Laterza ha pubblicato quasi tutti i suoi libri.
C’è una profonda differenza tra l’idea premoderna (medievale) di confessione – intesa prima e al di sopra di tutto come ammissione di colpa riguardo a qualcosa di già noto ai torturatori del corpo o dello spirito, ammissione che si traduceva in una riaffermazione o riconferma della verità come attributo dei superiori pastorali – e la nozione moderna della confessione come manifestazione, esteriorizzazione e affermazione di una «verità interiore», di un’autenticità dell’«io», fondamento dell’individualità e della privacy individuale.
Nella pratica, tuttavia, l’avvento dell’attuale società-confessionale è stato un fatto ambivalente. Ha segnato il trionfo definitivo di quella invenzione assolutamente moderna che è la privacy, ma anche l’inizio della sua vertiginosa caduta dalle vette della gloria. In realtà il trionfo della privacy è stato una vittoria di Pirro: essa ha invaso, conquistato e colonizzato la sfera pubblica, ma a prezzo del diritto alla segretezza, che è la sua caratteristica essenziale e il più caro e gelosamente difeso dei suoi privilegi. Un segreto, come altre categorie di beni personali, è per definizione una parte di conoscenza che non si può condividere con altri se non sotto rigoroso controllo. La segretezza traccia e segna il confine, per così dire, della privacy: della sfera, cioè, che si considera proprio esclusivo dominio, territorio sottoposto alla propria piena sovranità, che conferisce il potere pieno e indivisibile di decidere «che cosa e chi sono » e consente di lanciare e rilanciare campagne per ottenere e difendere il riconoscimento e il rispetto di tali decisioni.
Tuttavia, la repentina inversione a U rispetto alle abitudini dei nostri progenitori è che abbiamo perso la grinta, la forza e soprattutto la volontà di perseverare nella difesa di quei diritti, indispensabili mattoni costitutivi dell’autonomia individuale. Quel che oggi ci spaventa non è tanto la possibilità di un tradimento o di una violazione della privacy, quanto il suo opposto, il chiudersi delle vie d’uscita da essa. L’area della privacy è diventata un luogo di reclusione e il titolare di questo spazio privato è condannato a cuocersi nel suo brodo, segregato in una condizione contrassegnata dall’assenza di ascoltatori entusiastici che non vedono l’ora di estrarre e strappare i nostri segreti dai forzieri della privacy, esibirli pubblicamente e trasformarli in una proprietà condivisa da tutti e che tutti desiderano condividere. Sembra che non avvertiamo più alcuna gioia ad avere segreti, a meno che non si tratti di quel genere di segreti adatti a esaltare il nostro ego, attirando l’attenzione dei ricercatori e degli autori dei talkshow televisivi, delle prime pagine dei tabloid e delle copertine delle riviste stampate su carta patinata.
«Al cuore del social networking c’è uno scambio di informazioni personali». Gli utenti sono ben contenti di «rivelare dettagli intimi della propria vita personale», di «postare informazioni accurate» e di «condividere fotografie». Si stima che il 61% degli adolescenti britannici di età compresa tra i 13 e i 17 anni «abbia un profilo personale su un sito di networking» che consente di «socializzare online».
In Gran Bretagna, dove l’utilizzo diffuso di apparecchiature elettroniche d’avanguardia è indietro di vari cyber-anni rispetto all’Estremo Oriente, gli utenti forse sono ancora convinti che il social networking sia espressione della loro libertà di scelta e, addirittura, che sia uno strumento di ribellione e autoaffermazione giovanile. Ma in Corea del Sud, per fare un esempio, dove la maggior parte della vita sociale è già correntemente mediata dall’elettronica (o meglio, dove la vita sociale si è già trasformata in vita elettronica o cyber-vita e viene trascorsa perlopiù in compagnia di un computer, di un iPod o di un cellulare, e solo secondariamente in compagnia di altri esseri in carne e ossa), i giovani sanno bene di non avere la minima scelta; nel luogo in cui vivono, condurre la propria «vita sociale» in modalità elettronica non è più una scelta, ma una necessità: prendere o lasciare. La «morte sociale» attende quei pochi che ancora non si sono collegati a Cyworld, leader del cyber-mercato sudcoreano della «cultura show-and-tell».
Sarebbe tuttavia un grave errore credere che l’impellente bisogno di mostrare in pubblico il proprio «io interiore» e la disponibilità ad assecondare quel bisogno siano manifestazioni di un’urgenza e dipendenza peculiare, puramente generazionale e correlata all’età degli adolescenti, che è naturale scalpitino per metter piede nella «rete» (termine che sta rapidamente subentrando a «società» sia nel discorso delle scienze sociali, sia nel parlare corrente) e per restarvi, anche se non sanno bene come fare per riuscirci. La nuova tendenza alla confessione pubblica non si può spiegare, almeno in via esclusiva, con fattori «specifici dell’età». Così Eugéne Enriquez ha sintetizzato recentemente il messaggio che emerge dai crescenti segnali provenienti da tutti i settori del mondo liquido-moderno dei consumatori:
Solo se si tiene a mente che ciò che in precedenza era invisibile – l’intimità, la vita interiore di ciascuno – è chiamato ora a esibirsi sul palcoscenico pubblico (in primo luogo sugli schermi tv, ma anche sulla scena letteraria) si comprende che chi ha a cuore la propria invisibilità è destinato a essere respinto, emarginato o sospettato di aver commesso un crimine. La nudità fisica, sociale e psichica è all’ordine del giorno.
I teenager muniti di confessionali elettronici portatili non sono che apprendisti che si formano e vengono formati all’arte di vivere in una società-confessionale, una società contraddistinta dal fatto di aver cancellato il confine che separava un tempo pubblico e quello privato, di aver trasformato l’esibizione pubblica del privato in una pubblica virtù e in un pubblico dovere e di aver spazzato via dalla comunicazione pubblica tutto ciò che non si lascia ridurre a confidenza privata e tutti coloro che rifiutano di confidarsi. Già alla fine degli anni Venti, quando la trasformazione della società dei produttori in società di consumatori era ancora allo stadio embrionale, o tutt’al più iniziale, e dunque sfuggiva agli osservatori meno sensibili o lungimiranti, Siegfried Kracauer, pensatore dotato di una straordinaria capacità di cogliere i contorni appena abbozzati di tendenze che prefiguravano un futuro ancora sommerso in una massa informe di mode e manie passeggere, notava:
La corsa ai tanti istituti di bellezza è anche determinata da una preoccupazione per la propria esistenza, l’uso dei cosmetici non è sempre un lusso. Per la paura di essere dichiarati fuori uso come merce invecchiata le signore e i signori si tingono i capelli, e i quarantenni praticano lo sport per mantenersi snelli. Come devo fare per diventare bello? È il titolo di un opuscolo che è stato recentemente lanciato, e che secondo la pubblicità apparsa sui giornali insegna i mezzi «con cui apparire giovani e belli subito e a lungo».
Le abitudini emergenti registrate da Kracauer negli anni Venti come peculiare curiosità berlinese si sono propagate come un incendio nel bosco fino a trasformarsi in una routine quotidiana (o almeno in un sogno) in tutto il mondo. Quasi ottant’anni dopo, Germaine Greer ha potuto osservare che «persino nelle lande più remote della Cina nord-occidentale le donne hanno smesso di indossare abiti simili a pigiami e preferiscono reggiseni imbottiti e gonne civettuole, si arricciano e si tingono i capelli e risparmiano per acquistare cosmetici. L’hanno chiamata liberalizzazione».
Le ragazze e i ragazzi che mettono in mostra avidamente ed entusiasticamente le proprie qualità sperando di attirare l’attenzione e possibilmente di ottenere il riconoscimento e l’approvazione necessari per non essere esclusi dal gioco della socializzazione; i potenziali clienti che solo spendendo di più e ampliando i propri massimali di credito possono guadagnarsi un servizio migliore; gli aspiranti immigrati che si danno da fare per mettere insieme «punti» e dimostrare così che i loro servizi sono richiesti, nella speranza che in tal modo la loro domanda venga accettata: tutte e tre queste categorie di persone, apparentemente così diverse, e tante altre categorie di persone costrette a vendersi sul mercato e in cerca del migliore offerente sono allettate, spronate o costrette a pubblicizzare una merce attraente e desiderabile facendo qualunque cosa, con ogni mezzo a disposizione, per accrescere il valore di mercato dei prodotti che vendono. E la merce che sono incitate a mettere sul mercato, a pubblicizzare e a vendere sono proprio loro stessi.
Essi sono promotori di merci, e al tempo stesso le merci che promuovono. Sono la mercanzia e il suo agente commerciale, il prodotto e il suo commesso viaggiatore (esperienza imbarazzante, in cui non faticherà a riconoscersi qualsiasi accademico che abbia mai fatto domanda per una cattedra o chiesto finanziamenti per le sue ricerche). Tutti costoro, quale che sia la categoria in cui li inseriscono i compilatori di statistiche, abitano nello stesso spazio sociale chiamato mercato. Indipendentemente dalla voce in cui gli archivisti governativi o gli autori di inchieste giornalistiche classificano le loro preoccupazioni, l’attività cui si dedicano – per scelta, necessità o entrambe, come accade quasi sempre – è il marketing. La prova che devono superare per poter aspirare al riconoscimento sociale cui ambiscono li costringe a trasformarsi in merci, in prodotti capaci di suscitare attenzione e di attrarre domanda e clienti.
© 2013, Zygmunt Bauman e David Lyon - Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari
Tratto da Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto Potere, Laterza, pp. 162, euro 16
Zygmunt Bauman è uno dei più noti e influenti pensatori al mondo. A lui si deve la folgorante definizione della «modernità liquida», di cui è uno dei più acuti osservatori. Professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia, per i tipi di Laterza ha pubblicato quasi tutti i suoi libri.