Dal ‘79 i redditi del 90% degli americani sono fermi mentre la ricchezza dei ceti più abbienti è cresciuta nettamente. Si spiega così il successo del movimento populista e di Occupy Wall Street. Lo raccontano Borgognone e Mazzonis in un saggio Marsilio
di Giovanni Borgognone e Martino Mazzonis
Diverse analisi hanno ricondotto i Tea Parties – i cui militanti sono in maggioranza bianchi di mezza età appartenenti alla middle class – alle ansie suscitate dalle trasformazioni sociali del paese sul piano «etnico e «razziale».
Sarebbero significativi in tal senso gli attacchi lanciati contro Obama, la cui elezione, in fondo, è il più evidente simbolo dei grandi cambiamenti che hanno investito la società statunitense negli ultimi decenni.
Dalla composizione del Congresso dopo le elezioni del 2010, inoltre, risulta che i membri del Tea Party provengono in larga maggioranza dal Texas, dalla Florida, dalla Louisiana e dalla Georgia, tutti Stati della Confederazione nella guerra civile di metà Ottocento. Su tali basi c’è chi, come il politologo Michael Lind, è tornato a parlare di una «rivolta del Sud» incarnata dai Tea Parties, che darebbero dunque espressione a una sorta di «destra sudista neoconfederata».
Come vedremo, in realtà, l’estremismo degli eletti del Sud non coincide necessariamente con le idee del militante medio che pure, indirettamente, ha contribuito a portare a Washington una nuova generazione di conservatori. Del resto, i movimenti di base più grandi non sono stati al Sud, ma ovunque nel paese in zone colpite dalla crisi. Le interpretazioni fin qui sommariamente presentate toccano superficialmente un fattore cruciale, senza metterlo pienamente a fuoco: il declino della middle class americana, fenomeno di «lunga durata» su cui si sono innestate la crisi e l’elezione di Obama.
Un fattore talmente importante da rendere i movimenti estremi esplosi negli usa nell’ultimo quadriennio – il Tea Party e Occupy Wall Street – simpatici alla maggioranza, o almeno a un’ampia porzione della società che si definisce moderata. Sia il movimento di destra che quello di sinistra imputano la responsabilità della crisi a un potere grande e lontano. Ed entrambi hanno alla base l’idea che gli americani debbano riprendere in mano il loro futuro.
È sulle ricette, ovviamente, che le strade di Tea Party e Occupy Wall Street si dividono. Alla discesa agli inferi della classe media ha contribuito la recessione figlia della bolla immobiliare esplosa nel 2008, un colpo mortale inferto alle sicurezze della «porzione di mezzo» della società, il ceto a cui si rivolge la retorica pubblica e che determina con le sue oscillazioni gli equilibri politici di Washington.
I cambiamenti delle sue abitudini, la sua grandezza, la sua distribuzione geografica sono l’ossessione di ogni stratega politico che si rispetti. È anche puntando su una middle class giovane, urbana e istruita che Barack Obama riuscì nel 2008 a guadagnare alcuni Stati tradizionalmente repubblicani. In Virginia e Colorado, ad esempio, centrò l’obiettivo della vittoria grazie ai consensi raccolti nelle aree in rapida evoluzione dal punto di vista demografico e sociale.
La middle class ha diverse componenti di reddito al suo interno: non è dunque una classe economica. È piuttosto uno state of mind, un luogo immaginario di appartenenza sociale, al quale aspirare, dal quale voler partire per salire più in alto. Per fare cosa? Avere una casa più grande o in un quartiere migliore, mettere da parte abbastanza soldi da mandare tutti i figli al college e uno in una buona università, potersi permettere una buona assicurazione sanitaria, fare le lunghe file del Black Friday – il venerdì che segue il festeggiamento del Ringraziamento e inaugura la stagione dello shopping natalizio – davanti ai negozi e tornare a casa con grandi buste nel cofano dell’auto. Gli istituti che monitorano gli umori della middle class sostengono che circa il 50% della popolazione ritenga di appartenere al gruppo custode del sogno americano.
Questa metà dei cittadini usa comprende i quattro decimi di coloro che guadagnano meno di 20 mila dollari l’anno e un terzo di chi ne guadagna più di 150 mila. Chi pensa di essere classe media è in percentuale quasi identica bianco, nero o ispanico. In questo caso la differente autopercezione è legata al reddito: i bianchi che si sentono middle class sono più ricchi di neri e ispanici5. Per conseguire la materialità del sogno e continuare a crederci – e dunque immaginare un futuro per i propri discendenti migliore o uguale allo status raggiunto con lavoro e fatica – i soldi ovviamente servono.
E negli ultimi decenni, la classe media americana non ne ha guadagnati molti. Volendo scegliere una data, il declino della middle class comincia con la rivoluzione del 1980, quando il trionfo di Ronald Reagan segnò la fine di un’epoca e l’inizio del trentennio conservatore.
Il presidente divenne una sorta di eroe nazionale, e questo è uno dei capolavori della narrativa politica repubblicana. Come è un capolavoro il fatto che, nonostante lo stallo dell’economia reale e la perdita di reddito e certezze, il Grand Old Party abbia vinto cinque delle ultime otto elezioni presidenziali pescando nel bacino della classe a cui faceva perdere terreno con le sue scelte economiche. Cosa concorre a questo declino? Stagnazione dei redditi, ridotta mobilità verso l’alto e crescente diseguaglianza. Le statistiche serie non danno adito a dubbi.
Dalla fine del 1979 in poi i redditi del 90% degli americani sono sostanzialmente fermi, mentre la ricchezza del quintile più alto è cresciuta in maniera esponenziale: se si divide la società usa in cinque categorie di reddito, tutte tranne la più alta perdono ricchezza nel periodo 1967-2007; e il più penalizzato è il quintile intermedio. La middle class e l’economia americana – che si regge molto sul mercato interno – hanno fatto fronte a questa erosione della ricchezza indebitandosi. Nell’ultimo ventennio i consumi sono stati sostenuti dal credito facile, da prestiti sulla proprietà immobiliare e dalla crescita delle importazioni a basso costo di merci abbordabili per tutti. La middle class ha scavato a lungo e con cura la propria fossa8. Il ruolo delle banche, della finanza e della mancata regolazione e vigilanza da parte delle istituzioni federali è un altro fattore determinante, facilitato dall’ideologia che ha governato quelle istituzioni negli ultimi trent’anni.
All’inizio del 2011 il debito medio delle famiglie ha cominciato a calare. Ma fino ad allora, dal 1999, era sempre cresciuto, fino a diventare insostenibile. Intorno alle elezioni di midterm del 2010 ciascun americano aveva mediamente 47 mila dollari di debiti. Il grosso dell’indebitamento, prima della crisi come due anni dopo, era legato alla proprietà immobiliare. Lo scoppio della bolla ebbe due effetti paralleli: moltiplicò le riappropriazioni da parte delle banche, lasciando così milioni di persone senza una casa e senza risparmi, e ridimensionò la possibilità di indebitarsi sul differenziale tra il valore del proprio mutuo e quello di mercato del proprio immobile.
Tra il terzo trimestre del 2008 e la fine del 2010 la Federal Reserve registrava 4 milioni e 750 mila foreclosures, ovvero riappropriazioni di case da parte di banche e istituti finanziari creditori. Le bancarotte familiari erano centomila in più. Las Vegas, Miami, diverse aree metropolitane della California e del New Jersey, tra i centri più colpiti. Sarà bene tenere a mente questi luoghi, dove la bolla immobiliare aveva generato flussi migratori non indifferenti di famiglie alla ricerca di un «salto di qualità». È qui che la delusione della classe media incontra il Tea Party. Il mercato immobiliare impazzito aveva determinato una disponibilità di soldi che non esistevano nella realtà. Il ruolo delle banche in questo gioco è noto. Quel che conta qui è che la disponibilità di denaro e l’illusione che il prezzo delle case sarebbe cresciuto all’infinito conobbero un destino comune.
A quel punto l’onda lunga del trentennio conservatore si sarebbe ritirata per un momento, lasciando dietro di sé un panorama mutato per la classe media americana. Senza tenere conto dei casi limite dei mutui subprime, che riguardano fasce di reddito basse, quel che accadde a chi stava in mezzo e si era indebitato sul valore dell’immobile di proprietà fu di trovarsi di colpo a pagare rate per merci acquistate e per il mutuo che si avvicinavano pericolosamente al proprio reddito o al valore della casa. I costi delle assicurazioni sanitarie in costante crescita, così come quelli dell’istruzione, portavano via una porzione crescente di ricchezza alla middle class. Il risultato fu il terrore dell’arrivo di una malattia cronica, con le possibili conseguenze sull’intero nucleo familiare. Basti guardare al numero in declino di persone che decidevano di continuare la propria formazione oltre il college a causa della crescita costante delle rette universitarie e della sopravvenuta impossibilità a indebitarsi. La conseguenza immediata non poteva che essere un ulteriore rallentamento della mobilità verso l’alto.
Gli Stati Uniti restano ancora il paese con il numero più alto di laureati nella forza lavoro, ma se si prende in considerazione la sola fascia d’età tra i 25 e i 35 anni, non entrano nella classifica dei primi dieci. E siccome ogni indagine rileva che è proprio l’istruzione il principale fattore che contribuisce alla crescita nella scala sociale e del reddito, il risultato è una staticità che, se le cose non dovessero cambiare, potrebbe rappresentare la fine del sogno americano narrato nelle decine di romanzi di Horatio Alger, lo scrittore le cui storie di riscatto attraverso il duro lavoro e il rispetto dei valori sono state in decenni lontani lo specchio in cui l’americano medio si riconosceva con soddisfazione.
© 2012 by Marsilio Editori s.p.a. in Venezia
Tratto da Giovanni Borgognone, Martino Mazzonis, Tea Party, Marsilio, pp.160, euro 12.
Giovanni Borgognone, ricercatore in Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino, ha dedicato alla cultura politica statunitense diversi saggi.
Martino Mazzonis, giornalista, scrive per «Liberazione», «Il Riformista», «Reset», «Limes», «Loop». Ha seguito come inviato negli Stati Uniti le campagne elettorali del 2006, 2008 e 2010.
Diverse analisi hanno ricondotto i Tea Parties – i cui militanti sono in maggioranza bianchi di mezza età appartenenti alla middle class – alle ansie suscitate dalle trasformazioni sociali del paese sul piano «etnico e «razziale».
Sarebbero significativi in tal senso gli attacchi lanciati contro Obama, la cui elezione, in fondo, è il più evidente simbolo dei grandi cambiamenti che hanno investito la società statunitense negli ultimi decenni.
Dalla composizione del Congresso dopo le elezioni del 2010, inoltre, risulta che i membri del Tea Party provengono in larga maggioranza dal Texas, dalla Florida, dalla Louisiana e dalla Georgia, tutti Stati della Confederazione nella guerra civile di metà Ottocento. Su tali basi c’è chi, come il politologo Michael Lind, è tornato a parlare di una «rivolta del Sud» incarnata dai Tea Parties, che darebbero dunque espressione a una sorta di «destra sudista neoconfederata».
Come vedremo, in realtà, l’estremismo degli eletti del Sud non coincide necessariamente con le idee del militante medio che pure, indirettamente, ha contribuito a portare a Washington una nuova generazione di conservatori. Del resto, i movimenti di base più grandi non sono stati al Sud, ma ovunque nel paese in zone colpite dalla crisi. Le interpretazioni fin qui sommariamente presentate toccano superficialmente un fattore cruciale, senza metterlo pienamente a fuoco: il declino della middle class americana, fenomeno di «lunga durata» su cui si sono innestate la crisi e l’elezione di Obama.
Un fattore talmente importante da rendere i movimenti estremi esplosi negli usa nell’ultimo quadriennio – il Tea Party e Occupy Wall Street – simpatici alla maggioranza, o almeno a un’ampia porzione della società che si definisce moderata. Sia il movimento di destra che quello di sinistra imputano la responsabilità della crisi a un potere grande e lontano. Ed entrambi hanno alla base l’idea che gli americani debbano riprendere in mano il loro futuro.
È sulle ricette, ovviamente, che le strade di Tea Party e Occupy Wall Street si dividono. Alla discesa agli inferi della classe media ha contribuito la recessione figlia della bolla immobiliare esplosa nel 2008, un colpo mortale inferto alle sicurezze della «porzione di mezzo» della società, il ceto a cui si rivolge la retorica pubblica e che determina con le sue oscillazioni gli equilibri politici di Washington.
I cambiamenti delle sue abitudini, la sua grandezza, la sua distribuzione geografica sono l’ossessione di ogni stratega politico che si rispetti. È anche puntando su una middle class giovane, urbana e istruita che Barack Obama riuscì nel 2008 a guadagnare alcuni Stati tradizionalmente repubblicani. In Virginia e Colorado, ad esempio, centrò l’obiettivo della vittoria grazie ai consensi raccolti nelle aree in rapida evoluzione dal punto di vista demografico e sociale.
La middle class ha diverse componenti di reddito al suo interno: non è dunque una classe economica. È piuttosto uno state of mind, un luogo immaginario di appartenenza sociale, al quale aspirare, dal quale voler partire per salire più in alto. Per fare cosa? Avere una casa più grande o in un quartiere migliore, mettere da parte abbastanza soldi da mandare tutti i figli al college e uno in una buona università, potersi permettere una buona assicurazione sanitaria, fare le lunghe file del Black Friday – il venerdì che segue il festeggiamento del Ringraziamento e inaugura la stagione dello shopping natalizio – davanti ai negozi e tornare a casa con grandi buste nel cofano dell’auto. Gli istituti che monitorano gli umori della middle class sostengono che circa il 50% della popolazione ritenga di appartenere al gruppo custode del sogno americano.
Questa metà dei cittadini usa comprende i quattro decimi di coloro che guadagnano meno di 20 mila dollari l’anno e un terzo di chi ne guadagna più di 150 mila. Chi pensa di essere classe media è in percentuale quasi identica bianco, nero o ispanico. In questo caso la differente autopercezione è legata al reddito: i bianchi che si sentono middle class sono più ricchi di neri e ispanici5. Per conseguire la materialità del sogno e continuare a crederci – e dunque immaginare un futuro per i propri discendenti migliore o uguale allo status raggiunto con lavoro e fatica – i soldi ovviamente servono.
E negli ultimi decenni, la classe media americana non ne ha guadagnati molti. Volendo scegliere una data, il declino della middle class comincia con la rivoluzione del 1980, quando il trionfo di Ronald Reagan segnò la fine di un’epoca e l’inizio del trentennio conservatore.
Il presidente divenne una sorta di eroe nazionale, e questo è uno dei capolavori della narrativa politica repubblicana. Come è un capolavoro il fatto che, nonostante lo stallo dell’economia reale e la perdita di reddito e certezze, il Grand Old Party abbia vinto cinque delle ultime otto elezioni presidenziali pescando nel bacino della classe a cui faceva perdere terreno con le sue scelte economiche. Cosa concorre a questo declino? Stagnazione dei redditi, ridotta mobilità verso l’alto e crescente diseguaglianza. Le statistiche serie non danno adito a dubbi.
Dalla fine del 1979 in poi i redditi del 90% degli americani sono sostanzialmente fermi, mentre la ricchezza del quintile più alto è cresciuta in maniera esponenziale: se si divide la società usa in cinque categorie di reddito, tutte tranne la più alta perdono ricchezza nel periodo 1967-2007; e il più penalizzato è il quintile intermedio. La middle class e l’economia americana – che si regge molto sul mercato interno – hanno fatto fronte a questa erosione della ricchezza indebitandosi. Nell’ultimo ventennio i consumi sono stati sostenuti dal credito facile, da prestiti sulla proprietà immobiliare e dalla crescita delle importazioni a basso costo di merci abbordabili per tutti. La middle class ha scavato a lungo e con cura la propria fossa8. Il ruolo delle banche, della finanza e della mancata regolazione e vigilanza da parte delle istituzioni federali è un altro fattore determinante, facilitato dall’ideologia che ha governato quelle istituzioni negli ultimi trent’anni.
All’inizio del 2011 il debito medio delle famiglie ha cominciato a calare. Ma fino ad allora, dal 1999, era sempre cresciuto, fino a diventare insostenibile. Intorno alle elezioni di midterm del 2010 ciascun americano aveva mediamente 47 mila dollari di debiti. Il grosso dell’indebitamento, prima della crisi come due anni dopo, era legato alla proprietà immobiliare. Lo scoppio della bolla ebbe due effetti paralleli: moltiplicò le riappropriazioni da parte delle banche, lasciando così milioni di persone senza una casa e senza risparmi, e ridimensionò la possibilità di indebitarsi sul differenziale tra il valore del proprio mutuo e quello di mercato del proprio immobile.
Tra il terzo trimestre del 2008 e la fine del 2010 la Federal Reserve registrava 4 milioni e 750 mila foreclosures, ovvero riappropriazioni di case da parte di banche e istituti finanziari creditori. Le bancarotte familiari erano centomila in più. Las Vegas, Miami, diverse aree metropolitane della California e del New Jersey, tra i centri più colpiti. Sarà bene tenere a mente questi luoghi, dove la bolla immobiliare aveva generato flussi migratori non indifferenti di famiglie alla ricerca di un «salto di qualità». È qui che la delusione della classe media incontra il Tea Party. Il mercato immobiliare impazzito aveva determinato una disponibilità di soldi che non esistevano nella realtà. Il ruolo delle banche in questo gioco è noto. Quel che conta qui è che la disponibilità di denaro e l’illusione che il prezzo delle case sarebbe cresciuto all’infinito conobbero un destino comune.
A quel punto l’onda lunga del trentennio conservatore si sarebbe ritirata per un momento, lasciando dietro di sé un panorama mutato per la classe media americana. Senza tenere conto dei casi limite dei mutui subprime, che riguardano fasce di reddito basse, quel che accadde a chi stava in mezzo e si era indebitato sul valore dell’immobile di proprietà fu di trovarsi di colpo a pagare rate per merci acquistate e per il mutuo che si avvicinavano pericolosamente al proprio reddito o al valore della casa. I costi delle assicurazioni sanitarie in costante crescita, così come quelli dell’istruzione, portavano via una porzione crescente di ricchezza alla middle class. Il risultato fu il terrore dell’arrivo di una malattia cronica, con le possibili conseguenze sull’intero nucleo familiare. Basti guardare al numero in declino di persone che decidevano di continuare la propria formazione oltre il college a causa della crescita costante delle rette universitarie e della sopravvenuta impossibilità a indebitarsi. La conseguenza immediata non poteva che essere un ulteriore rallentamento della mobilità verso l’alto.
Gli Stati Uniti restano ancora il paese con il numero più alto di laureati nella forza lavoro, ma se si prende in considerazione la sola fascia d’età tra i 25 e i 35 anni, non entrano nella classifica dei primi dieci. E siccome ogni indagine rileva che è proprio l’istruzione il principale fattore che contribuisce alla crescita nella scala sociale e del reddito, il risultato è una staticità che, se le cose non dovessero cambiare, potrebbe rappresentare la fine del sogno americano narrato nelle decine di romanzi di Horatio Alger, lo scrittore le cui storie di riscatto attraverso il duro lavoro e il rispetto dei valori sono state in decenni lontani lo specchio in cui l’americano medio si riconosceva con soddisfazione.
© 2012 by Marsilio Editori s.p.a. in Venezia
Tratto da Giovanni Borgognone, Martino Mazzonis, Tea Party, Marsilio, pp.160, euro 12.
Giovanni Borgognone, ricercatore in Storia delle dottrine politiche all’Università di Torino, ha dedicato alla cultura politica statunitense diversi saggi.
Martino Mazzonis, giornalista, scrive per «Liberazione», «Il Riformista», «Reset», «Limes», «Loop». Ha seguito come inviato negli Stati Uniti le campagne elettorali del 2006, 2008 e 2010.