Cina, il flop della rivolta online dei gelsomini
MondoCome in Egitto, Tunisia e Libia, su Internet sono state indette manifestazioni contro la corruzione. Ma da Twitter alle piazze il passo è ancora molto lungo: cronaca di una sollevazione fallita
di Simone Pieranni
Oltre cento arresti di attivisti cinesi, un fotoreporter picchiato, nove giornalisti interrogati e fermati, un dispiegamento di polizia impressionante: sono i risultati delle tentate rivolte del gelsomino in Cina che, sulla scia di quanto successo nel Mediterraneo, hanno cercato di ricorrere al web per mobilitare la popolazione.
E, in effetti, le premesse della storia assomigliano molto a quelle viste in queste settimane in Tunisia, Egitto, Libia, Marocco e altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Due settimane fa su boxun.com, sito americano in lingua cinese, è stato lanciato un appello a manifestare, in 13 città cinesi e muniti di un gelsomino, contro la corruzione del sistema politico cinese. Nell'appello si chiedeva una rivoluzione non violenta e si sottolineava la necessità di un bilanciamento dei poteri in Cina.
Domenica 20 febbraio è andato in scena il primo tentativo. Poche persone in verità nelle piazze, ma specie su Twitter l'appello targato con l'hashtag #cn220 rimbalzava da un account all'altro. Stessa cosa sui servizi di microblogging cinese come Weibo (solo che nel frattempo i messaggi sono stati cancellati). Contemporaneamente sono partiti i primi arresti. Alcuni attivisti e blogger particolarmente noti in Cina sono stati arrestati con l'accusa di “sovversione”.
Il reato: avere re-twittato l'appello.
A fare le spese delle azioni delle autorità di sicurezza cinese, anche alcuni nomi noti del web cinese, su tutti Secretary Zhang, già fondatore della storica BBS 1984, chiusa tempo fa dalle autorità, nonché Yan Runfei, altro blogger sichuanese particolarmente attivo nella rete cinese.
La scorsa settimana nuovo appello, questa volta al rialzo, nuovo hashtag (#cn227) e nuovo passaparola online: 23 le città coinvolte. Immediata è arrivata la risposta del governo cinese, apparso oltre modo preoccupato da questi eventi, specie in vista dell'annuale Assemblea Nazionale del Popolo che inizierà il 5 marzo a Pechino. Mentre alcuni quotidiani ufficiali bollavano la manifestazione di domenica 20 come “performance artistica”, molti dei giornalisti stranieri nella capitale venivano avvisati di “ricordarsi delle leggi cinesi”.
Durante la settimana è stato bloccato anche Linkedin per quasi 15 ore, poi sbloccato, mentre la rete subiva rallentamenti e anche i proxy, strumenti usati per ovviare alla censura cinese, venivano bloccati dal Great Firewall, il sistema complesso di controllo del web del governo cinese. A fare le spese di tanta attenzione è stato anche l'ambasciatore statunitense, reo di avere inserito online un video della manifestazione del 20 febbraio. Il suo nome, come gelsomino e tanti altri, risultava bannato dalle ricerche sulla rete cinese.
Domenica 27 a Pechino in Wangfujing lu, una delle strade centrali della capitale cinese, solitamente dedicata allo shopping, l'appuntamento è stato fissato alle 14 di fronte al Mc Donald's. La situazione che si presentava a chi aveva deciso di recarsi sul luogo era di surreale tensione. Poliziotti in divisa, in borghese, con i cani. Successivamente, camion per il lavaggio della strada sgomberavano rapidamente il luogo, con la via chiusa da entrambe le entrate principali. Non pochi gli stranieri bloccati, cui veniva chiesto di presentare passaporto. Manifestanti: nessuno. Rispetto a Pechino, a Shanghai altro luogo deputato alla rivolta dei gelsomini, si è registrata una partecipazione maggiore, con alcuni arresti effettuati dalla polizia. Ironia della sorte: nella mattina di domenica 27 febbraio il premier cinese Wen Jiabao rispondeva via chat alle domande di alcuni utenti rigorosamente scelti dagli apparati del Partito. Neanche un riferimento alle proteste, se non vaghi discorsi circa la necessità di equilibrare sviluppo economico, con la qualità della vita dei cinesi.
In generale il primo tentativo di rivolta cinese ispirato dal Web si può dire sia fallito. Troppe sembrano le differenze sociali tra Egitto, Tunisia, Libia e la Cina, in cui l'avanzamento economico procede di pari passo con una capacità straordinaria da parte delle autorità di controllare ogni minimo sommovimento sociale. Il Times of India, a fronte della mancata riuscita delle proteste ha anche azzardato l'idea (che appare remota) circa una sorta di esperimento delle autorità cinesi, volte a saggiare la capacità di reazione del proprio apparato di controllo.
Nel web la discussione continua, ma il Mediterraneo sembra sempre più distante.
Oltre cento arresti di attivisti cinesi, un fotoreporter picchiato, nove giornalisti interrogati e fermati, un dispiegamento di polizia impressionante: sono i risultati delle tentate rivolte del gelsomino in Cina che, sulla scia di quanto successo nel Mediterraneo, hanno cercato di ricorrere al web per mobilitare la popolazione.
E, in effetti, le premesse della storia assomigliano molto a quelle viste in queste settimane in Tunisia, Egitto, Libia, Marocco e altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Due settimane fa su boxun.com, sito americano in lingua cinese, è stato lanciato un appello a manifestare, in 13 città cinesi e muniti di un gelsomino, contro la corruzione del sistema politico cinese. Nell'appello si chiedeva una rivoluzione non violenta e si sottolineava la necessità di un bilanciamento dei poteri in Cina.
Domenica 20 febbraio è andato in scena il primo tentativo. Poche persone in verità nelle piazze, ma specie su Twitter l'appello targato con l'hashtag #cn220 rimbalzava da un account all'altro. Stessa cosa sui servizi di microblogging cinese come Weibo (solo che nel frattempo i messaggi sono stati cancellati). Contemporaneamente sono partiti i primi arresti. Alcuni attivisti e blogger particolarmente noti in Cina sono stati arrestati con l'accusa di “sovversione”.
Il reato: avere re-twittato l'appello.
A fare le spese delle azioni delle autorità di sicurezza cinese, anche alcuni nomi noti del web cinese, su tutti Secretary Zhang, già fondatore della storica BBS 1984, chiusa tempo fa dalle autorità, nonché Yan Runfei, altro blogger sichuanese particolarmente attivo nella rete cinese.
La scorsa settimana nuovo appello, questa volta al rialzo, nuovo hashtag (#cn227) e nuovo passaparola online: 23 le città coinvolte. Immediata è arrivata la risposta del governo cinese, apparso oltre modo preoccupato da questi eventi, specie in vista dell'annuale Assemblea Nazionale del Popolo che inizierà il 5 marzo a Pechino. Mentre alcuni quotidiani ufficiali bollavano la manifestazione di domenica 20 come “performance artistica”, molti dei giornalisti stranieri nella capitale venivano avvisati di “ricordarsi delle leggi cinesi”.
Durante la settimana è stato bloccato anche Linkedin per quasi 15 ore, poi sbloccato, mentre la rete subiva rallentamenti e anche i proxy, strumenti usati per ovviare alla censura cinese, venivano bloccati dal Great Firewall, il sistema complesso di controllo del web del governo cinese. A fare le spese di tanta attenzione è stato anche l'ambasciatore statunitense, reo di avere inserito online un video della manifestazione del 20 febbraio. Il suo nome, come gelsomino e tanti altri, risultava bannato dalle ricerche sulla rete cinese.
Domenica 27 a Pechino in Wangfujing lu, una delle strade centrali della capitale cinese, solitamente dedicata allo shopping, l'appuntamento è stato fissato alle 14 di fronte al Mc Donald's. La situazione che si presentava a chi aveva deciso di recarsi sul luogo era di surreale tensione. Poliziotti in divisa, in borghese, con i cani. Successivamente, camion per il lavaggio della strada sgomberavano rapidamente il luogo, con la via chiusa da entrambe le entrate principali. Non pochi gli stranieri bloccati, cui veniva chiesto di presentare passaporto. Manifestanti: nessuno. Rispetto a Pechino, a Shanghai altro luogo deputato alla rivolta dei gelsomini, si è registrata una partecipazione maggiore, con alcuni arresti effettuati dalla polizia. Ironia della sorte: nella mattina di domenica 27 febbraio il premier cinese Wen Jiabao rispondeva via chat alle domande di alcuni utenti rigorosamente scelti dagli apparati del Partito. Neanche un riferimento alle proteste, se non vaghi discorsi circa la necessità di equilibrare sviluppo economico, con la qualità della vita dei cinesi.
In generale il primo tentativo di rivolta cinese ispirato dal Web si può dire sia fallito. Troppe sembrano le differenze sociali tra Egitto, Tunisia, Libia e la Cina, in cui l'avanzamento economico procede di pari passo con una capacità straordinaria da parte delle autorità di controllare ogni minimo sommovimento sociale. Il Times of India, a fronte della mancata riuscita delle proteste ha anche azzardato l'idea (che appare remota) circa una sorta di esperimento delle autorità cinesi, volte a saggiare la capacità di reazione del proprio apparato di controllo.
Nel web la discussione continua, ma il Mediterraneo sembra sempre più distante.