Libia, tra vittime e (dis)informazione: intervista a Rumiz

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Una foto, diffusa dal sito Onedayonearth, mostra le presunte "fosse comuni" sulla spiaggia di Tripoli
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Le riflessioni di un grande inviato, vittima nell'89 dell’inganno dei servizi segreti rumeni: “Fu una grande lezione di giornalismo. Durante le guerre chi vuole condizionare l’opinione pubblica usa i cadaveri. Ma non bisogna mai smettere di farsi domande"

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di Daniele Troilo

“Quando c’è una guerra, la confusione, la concitazione e la fretta giocano sempre a favore di chi vuole mettere in giro notizie false. Anche stavolta, in Libia, non scopriamo niente di nuovo”. Paolo Rumiz, giornalista di Repubblica e scrittore, ha imparato questa lezione sulla sua pelle. Nel 1989 si trovava in Romania per raccontare la fine del regime di Ceausescu. Arrivato a Timisoara vide con i suoi occhi dei cadaveri per terra, la gente del posto gli disse che erano stati torturati dalla polizia segreta e lui, insieme ad altri giornalisti, raccontò quella versione ai suoi lettori credendo si trattasse della verità.

Ma le cose non erano andate realmente così. Oggi in Libia non sappiamo veramente quello che sta succedendo. Come allora, e come avviene durante ogni conflitto, le notizie schizzano incontrollate. Di sicuro ci sono dei morti, ma nessuno può dire con certezza, almeno per il momento, se si può parlare di un genocidio. E il rischio di inciampare nella trappola della disinformazione è sempre in agguato.

Rumiz, cosa successe quel giorno del 1989?
Era dicembre, ricordo un caldo anomalo per quel periodo. Niente a che vedere con il freddo che pochi giorni dopo avrebbe spazzato via il regime di Ceausescu. Lavoravo per il Piccolo di Trieste, che decise di inviarmi in Romania. Quando io arrivai era scoppiato il primo nucleo di rivolta contro la dittatura. E mi ritrovai in una situazione molto simile a quella che sembra essersi ripetuta in questi giorni in Libia.

Il finto massacro di Timisoara…
Giravano delle voci e io, insieme ad altri colleghi provenienti da tutto il mondo, mi spinsi fino a raggiungere un cimitero alla periferia della città. C’erano dei cadaveri sistemati per terra. Nudi, anche mamme con dei neonati accanto. Avevano tutti una lunga cicatrice sul torace. Ci dissero che erano stati torturati dalla Securitate, la polizia segreta del regime. Ci credemmo. Tutti. Anch’io, preso dalla stanchezza e dall’emozione, mi bevvi quella storia e scrissi un articolo molto forte accreditando in pieno la versione che quelli erano stati veramente uccisi dalla furia di Ceausescu.

Non era la verità
A ribaltone concluso qualcuno non smise di farsi delle domande. Con calma, qualche giorno dopo, un giornalista tornò a Timisoara e indagò sull’origine di quei corpi. Scoprì che non erano stati torturati, ma erano morti di malattia in ospedale. Ed erano stati portati in strada per farci credere cose non vere.

Come era stato possibile?
Un giornalista in quelle occasioni deve fare l’unica cosa che gli si chiede: fare il suo mestiere. Deve fare e farsi domande, mettere l’interlocutore di fronte al dubbio. Capire chi, come, quando, perché. Se noi quel giorno ci fossimo chiesti tutte queste cose probabilmente ci saremmo resi conti di quanto fosse inverosimile quella situazione. Quelle cicatrici… Altro che torture, erano i segni dell’autopsia. Ma quella per me fu la più la grande lezione di giornalismo. Quelle domande che allora non mi feci mi risuonarono nella testa non appena scoprii la verità. Mi resi conto di essere stato uno strumento nelle mani dei servizi segreti e mi dicevo: ma come ho fatto? Da allora, quelle domande mi ronzano nella testa ogni volta che mi trovo in una situazione difficile da interpretare.

Anche in Libia la situazione per i media occidentali sembra difficile da interpretare. Un esempio che rischia di ricordare il finto massacro di Timisoara è il video circolato nei giorni scorsi dove si vedono degli uomini scavare delle fosse. I media hanno parlato in un primo momento di fosse comuni. Salvo avanzare qualche dubbio subito dopo
Sì, in Libia potrebbero aver agito come in Romania. E come avviene sempre durante le guerre, che ormai si combattono anche con l’uso dell’informazione. Ovviamente, non possiamo nemmeno escludere che chi ha girato quelle immagini lo abbia fatto in buona fede. Ma che non fossero delle fosse comuni mi sembrava chiaro sin dall’inizio. Dal video si capisce che non c’è un’unica fossa ma tante fosse, una cosa che assomiglia molto di più a un cimitero.

Però i media, almeno all’inizio, hanno parlato di fosse comuni in Libia
E’ l’indiscutibilità della morte che ti frega. Davanti a dei cadaveri uno non può fare a meno che prenderli per tali. Quando c’è una guerra, la confusione, la concitazione e la fretta giocano sempre a favore di chi vuole mettere in giro notizie false. Tutte queste cose chi manipola l’informazione le sa. Durante le guerre, i servizi segreti o chi vuole condizionare l’opinione pubblica usa i cadaveri per raccontare cose non vere. E’ un trucco antico. Non scopriamo niente di nuovo.

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