Il leader libico è apparso sulla tv in piena notte: "Sono qui, non in Venezuela". E intanto i testimoni denunciano raid aerei sulla rivolta: 250 morti in un giorno. "E' genocidio": alcuni ministri, ambasciatori e alti ufficiali lasciano il regime.
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Libia sull'orlo della guerra civile: la cronaca della giornata
Tripoli bombardata e centinaia di morti. Gronda sangue la repressione del regime libico contro la rivolta, ad una settimana esatta dall'inizio delle manifestazioni di protesta con una drammatica svolta che tradisce però lo sgretolarsi del regime sotto il peso dell'insurrezione popolare, con voci di militari che passano dalla parte dei rivoltosi e le defezioni dei diplomatici a macchia d'olio.
E dopo che era stato annunciato sin dalla serata, Muammar Gheddafi, l'inossidabile rais che ha tenuto tutto in pugno per 42 anni, è apparso infine in tv in piena notte per una veloce e bizzarra dichiarazione: "Sono a Tripoli, non in Venezuela". Le immagini, trasmesse dalla tv libica e ripresa dalla tv satellitare Al Arabiya, lo mostrano con cappello di pelliccia e ombrello bianco.
Una dichiarazione secca, tanto semplice quanto beffarda che sembra solo voler
rispondere alle insistenti voci di una sua fuga verso il Venezuela che si sono rincorse tutto il giorno, tra conferme e smentite (GUARDA LE FOTO). Era stato solo il figlio Seif al Islam a parlare domenica 20 alla nazione: "lotteremo fino all'ultimo uomo e all'ultima donna", ha detto domenica sera, per ribadire ancora ieri "Le forze armate lotteranno per laLibia fino all'ultimo proiettile".
Così lunedì 21 i caccia si sono alzati in volo e, ancor prima che la piazza verde fosse piena, che la marcia su Tripoli annunciata dai manifestanti fosse compiuta, hanno aperto il fuoco, uccidendo oltre 250 persone secondo al Jazeera. Mentre la televisione di Stato libica annunciava la massiccia operazione delle forze di sicurezza contro "i covi di sabotatori e i terroristi", mostrando poi immagini di manifestazioni pro-Gheddafi sulla Piazza Verde, a ripetizione. Nella serata di lunedì 21 Seif al-Islam, il figlio di Gheddafi ha sostenuto che "l'aeronautica ha bombardato alcuni depositi di armi situati in zone lontane dagli insediamenti urbani" in una dichiarazione all'agenzia ufficiale libica Jana.
La Libia è dunque in fiamme, tutta, da oggi brucia anche Tripoli dopo sei giorni di cruente battaglie nell'est del Paese, nella Cirenaica 'culla del dissenso' e nel suo capoluogo Bengasi. Restano tuttavia difficili da verificare la informazioni che giungono dal Paese sempre bandito ai giornalisti, se non con l'ausilio di testimoni e dei molti dei cittadini stranieri già rientrati in patria, mentre a migliaia aspettano ancora di imbarcarsi sui voli da più parte messi a disposizione per lasciare la Libia: dal personale "non indispensabile" delle molte compagnie petrolifere presenti sul territorio, a molti negli staff delle rappresentanze diplomatiche.
Sulla situazione nel Paese è intervenuta anche la comunità internazionale. Dall'Onu all'Ue è un coro di condanna per le violenze messe in atto dalle forze di repressione della guerriglia. Nella serata del 21 febbraio, interviene anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. "E' inaccettabile la violenza sui civili - dichiara il premier, che aggiunge - Bisogna impedire che la crisi libica degeneri in una guerra civile dalle conseguenze difficilmente prevedibili".
E le comunicazioni restano difficili, con ripetute segnalazioni di linee telefoniche interrotte e sistemi di trasmissione disturbati. Sono voci difficilmente verificabili anche quelle circolate questa mattina su un possibile colpo di stato da parte dei militari: fonti libiche hanno fatto sapere ad Al Jazira che all'interno dell'esercito vi sarebbero grandi tensioni, al punto da poter prevedere che il capo di stato maggiore aggiunto, El Mahdi El Arabi, possa dirigere un colpo di stato militare contro il colonnello Gheddafi. Poi il giornale Libia al-Youm che parla del capo di stato maggiore dell'esercito, Abu-Bakr Yunis Jabir, agli arresti domiciliari dopo essere passato dalla parte dei rivoltosi, sembra però confermare lo scollamento all'interno delle forze armate.
Fino alla notizia, questa confermata nel pomeriggio, della diserzioni di due cacciabombardieri Mirage libici atterrati a Malta: i piloti libici a bordo hanno raggiunto l'isola senza il permesso delle autorità maltesi dopo essersi rifiutati di eseguire l'ordine di sparare sulla folla.
Defezioni a macchia d'olio invece per i diplomatici libici nel mondo: dopo le dimissioni ieri dell'ambasciatore di Tripoli presso la Lega Araba, oggi ha lasciato la delegazione libica all'Onu e il numero due della missione Ibrahim Dabbashi ha invocato un intervento internazionale contro quello che ha definito "un genocidio". Ma anche diplomatici in Cina, Regno Unito Polonia, India, Indonesia, Svezia e Malta, hanno abbandonato la nave di Gheddafi: il chiaro segnale che se questa non sta affondando è quantomeno alla deriva.
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E dopo che era stato annunciato sin dalla serata, Muammar Gheddafi, l'inossidabile rais che ha tenuto tutto in pugno per 42 anni, è apparso infine in tv in piena notte per una veloce e bizzarra dichiarazione: "Sono a Tripoli, non in Venezuela". Le immagini, trasmesse dalla tv libica e ripresa dalla tv satellitare Al Arabiya, lo mostrano con cappello di pelliccia e ombrello bianco.
Una dichiarazione secca, tanto semplice quanto beffarda che sembra solo voler
rispondere alle insistenti voci di una sua fuga verso il Venezuela che si sono rincorse tutto il giorno, tra conferme e smentite (GUARDA LE FOTO). Era stato solo il figlio Seif al Islam a parlare domenica 20 alla nazione: "lotteremo fino all'ultimo uomo e all'ultima donna", ha detto domenica sera, per ribadire ancora ieri "Le forze armate lotteranno per laLibia fino all'ultimo proiettile".
Così lunedì 21 i caccia si sono alzati in volo e, ancor prima che la piazza verde fosse piena, che la marcia su Tripoli annunciata dai manifestanti fosse compiuta, hanno aperto il fuoco, uccidendo oltre 250 persone secondo al Jazeera. Mentre la televisione di Stato libica annunciava la massiccia operazione delle forze di sicurezza contro "i covi di sabotatori e i terroristi", mostrando poi immagini di manifestazioni pro-Gheddafi sulla Piazza Verde, a ripetizione. Nella serata di lunedì 21 Seif al-Islam, il figlio di Gheddafi ha sostenuto che "l'aeronautica ha bombardato alcuni depositi di armi situati in zone lontane dagli insediamenti urbani" in una dichiarazione all'agenzia ufficiale libica Jana.
La Libia è dunque in fiamme, tutta, da oggi brucia anche Tripoli dopo sei giorni di cruente battaglie nell'est del Paese, nella Cirenaica 'culla del dissenso' e nel suo capoluogo Bengasi. Restano tuttavia difficili da verificare la informazioni che giungono dal Paese sempre bandito ai giornalisti, se non con l'ausilio di testimoni e dei molti dei cittadini stranieri già rientrati in patria, mentre a migliaia aspettano ancora di imbarcarsi sui voli da più parte messi a disposizione per lasciare la Libia: dal personale "non indispensabile" delle molte compagnie petrolifere presenti sul territorio, a molti negli staff delle rappresentanze diplomatiche.
Sulla situazione nel Paese è intervenuta anche la comunità internazionale. Dall'Onu all'Ue è un coro di condanna per le violenze messe in atto dalle forze di repressione della guerriglia. Nella serata del 21 febbraio, interviene anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. "E' inaccettabile la violenza sui civili - dichiara il premier, che aggiunge - Bisogna impedire che la crisi libica degeneri in una guerra civile dalle conseguenze difficilmente prevedibili".
E le comunicazioni restano difficili, con ripetute segnalazioni di linee telefoniche interrotte e sistemi di trasmissione disturbati. Sono voci difficilmente verificabili anche quelle circolate questa mattina su un possibile colpo di stato da parte dei militari: fonti libiche hanno fatto sapere ad Al Jazira che all'interno dell'esercito vi sarebbero grandi tensioni, al punto da poter prevedere che il capo di stato maggiore aggiunto, El Mahdi El Arabi, possa dirigere un colpo di stato militare contro il colonnello Gheddafi. Poi il giornale Libia al-Youm che parla del capo di stato maggiore dell'esercito, Abu-Bakr Yunis Jabir, agli arresti domiciliari dopo essere passato dalla parte dei rivoltosi, sembra però confermare lo scollamento all'interno delle forze armate.
Fino alla notizia, questa confermata nel pomeriggio, della diserzioni di due cacciabombardieri Mirage libici atterrati a Malta: i piloti libici a bordo hanno raggiunto l'isola senza il permesso delle autorità maltesi dopo essersi rifiutati di eseguire l'ordine di sparare sulla folla.
Defezioni a macchia d'olio invece per i diplomatici libici nel mondo: dopo le dimissioni ieri dell'ambasciatore di Tripoli presso la Lega Araba, oggi ha lasciato la delegazione libica all'Onu e il numero due della missione Ibrahim Dabbashi ha invocato un intervento internazionale contro quello che ha definito "un genocidio". Ma anche diplomatici in Cina, Regno Unito Polonia, India, Indonesia, Svezia e Malta, hanno abbandonato la nave di Gheddafi: il chiaro segnale che se questa non sta affondando è quantomeno alla deriva.
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