I pro-Mubarak all'assalto di Facebook
MondoDa quando Internet è stata riaccesa in Egitto, i siti di riferimento della protesta sono presi di mira da disturbatori. Squadre di supporter assoldate del regime hanno cominciato ad agire sul web? Non sarebbe la prima volta: in Cina e Iran già accade
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di Carola Frediani
Gesto di disperazione di un potere morente o avveduto cambio di tattica che sia, il regime di Mubarak reagisce anche sul web. Mentre migliaia di persone continuano ad assieparsi in piazza Tahrir, al Cairo, luogo simbolo della rivolta contro il presidente egiziano, e le manifestazioni di protesta hanno ormai superato le due settimane, militanti filo-governativi dopo quella reali assaltano anche le agorà virtuali. Tra queste anche una delle più importanti paginae Facebook del movimento, We Are All Khalid Said, tra i primi gruppi a incitare alla rivolta. Nella sua versione araba più che in quella inglese, la pagina è stata presa di mira con insulti, pesanti critiche e minacce.
L'operazione, fanno notare vari commentatori, è quanto meno sospetta, perché fino a prima dello spegnimento forzato della Rete nel Paese, durato cinque giorni, non si registrava tanto attivismo online da parte dei sostenitori di Mubarak. Che si sono improvvisamente materializzati, perlopiù in forma anonima, solo negli ultimi giorni.
Il dubbio è che dietro questo intervento ci siano delle 'truppe cammellate' agli ordini del regime che tardivamente si sarebbe reso conto della necessità di impegnarsi di più sul terreno della guerra di propaganda.
La pagina di Khalid Said – che porta il nome di un giovane egiziano ucciso dalla polizia – è stata il fulcro organizzativo delle manifestazioni a partire da quella del 25 gennaio. Non solo: ha diffuso informazioni su come usare gli sms per fare passaparola, su dove incontrarsi, su come lanciare flash mob, raduni improvvisati, e via dicendo. A crearla e amministrarla, si è scoperto solo da poco, proprio quel Wael Ghonim, marketing manager di Google, da poco rilasciato dalle autorità dopo 12 giorni di prigionia. Ma più in generale tutto il web – dai blog a Twitter a YouTube – è stato cruciale nel tam tam della protesta all'interno del Paese e come cassa di risonanza all'esterno.
La preoccupazione del governo egiziano per quello che succede in Rete era già emersa la scorsa estate, quando il ministro dell'Interno aveva istituito un dipartimento speciale per monitorare le attività su Facebook. Una sezione composta da 15 persone che però, secondo Global Voices, potrebbe contare su gruppi di giovani prezzolati, incaricati di difendere il regime con commenti online. Uno sforzo comunque improbo dal momento che gli utenti Facebook in Egitto sono quasi 4 milioni, secondo un rapporto di E-Marketing. Certo, una piccola parte - il 5 per cento – rispetto all'intera popolazione. Ma sono sempre le minoranze organizzate a portare in piazza il resto delle persone.
D'altronde, come spiega nel suo ultimo libro lo studioso Evgeny Morozov, gli stati più repressivi hanno da tempo messo in atto progetti di controllo della Rete che non consistono solo nella censura, ma in un coinvolgimento attivo di utenti prezzolati. Il caso più celebre è quello del cosiddetto 'Esercito dei 50 centesimi' cinese, utenti pagati per scrivere post o inserire commenti favorevoli al governo in blog e forum. Secondo alcuni questi militanti sarebbero circa 300 mila e il presidente Hu Jintao li ha definiti un “nuovo schema di guida dell’opinione pubblica”. In Iran, invece, sarebbero attivi 10 mila blogger assoldati per difendere in rete la rivoluzione islamica.
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di Carola Frediani
Gesto di disperazione di un potere morente o avveduto cambio di tattica che sia, il regime di Mubarak reagisce anche sul web. Mentre migliaia di persone continuano ad assieparsi in piazza Tahrir, al Cairo, luogo simbolo della rivolta contro il presidente egiziano, e le manifestazioni di protesta hanno ormai superato le due settimane, militanti filo-governativi dopo quella reali assaltano anche le agorà virtuali. Tra queste anche una delle più importanti paginae Facebook del movimento, We Are All Khalid Said, tra i primi gruppi a incitare alla rivolta. Nella sua versione araba più che in quella inglese, la pagina è stata presa di mira con insulti, pesanti critiche e minacce.
L'operazione, fanno notare vari commentatori, è quanto meno sospetta, perché fino a prima dello spegnimento forzato della Rete nel Paese, durato cinque giorni, non si registrava tanto attivismo online da parte dei sostenitori di Mubarak. Che si sono improvvisamente materializzati, perlopiù in forma anonima, solo negli ultimi giorni.
Il dubbio è che dietro questo intervento ci siano delle 'truppe cammellate' agli ordini del regime che tardivamente si sarebbe reso conto della necessità di impegnarsi di più sul terreno della guerra di propaganda.
La pagina di Khalid Said – che porta il nome di un giovane egiziano ucciso dalla polizia – è stata il fulcro organizzativo delle manifestazioni a partire da quella del 25 gennaio. Non solo: ha diffuso informazioni su come usare gli sms per fare passaparola, su dove incontrarsi, su come lanciare flash mob, raduni improvvisati, e via dicendo. A crearla e amministrarla, si è scoperto solo da poco, proprio quel Wael Ghonim, marketing manager di Google, da poco rilasciato dalle autorità dopo 12 giorni di prigionia. Ma più in generale tutto il web – dai blog a Twitter a YouTube – è stato cruciale nel tam tam della protesta all'interno del Paese e come cassa di risonanza all'esterno.
La preoccupazione del governo egiziano per quello che succede in Rete era già emersa la scorsa estate, quando il ministro dell'Interno aveva istituito un dipartimento speciale per monitorare le attività su Facebook. Una sezione composta da 15 persone che però, secondo Global Voices, potrebbe contare su gruppi di giovani prezzolati, incaricati di difendere il regime con commenti online. Uno sforzo comunque improbo dal momento che gli utenti Facebook in Egitto sono quasi 4 milioni, secondo un rapporto di E-Marketing. Certo, una piccola parte - il 5 per cento – rispetto all'intera popolazione. Ma sono sempre le minoranze organizzate a portare in piazza il resto delle persone.
D'altronde, come spiega nel suo ultimo libro lo studioso Evgeny Morozov, gli stati più repressivi hanno da tempo messo in atto progetti di controllo della Rete che non consistono solo nella censura, ma in un coinvolgimento attivo di utenti prezzolati. Il caso più celebre è quello del cosiddetto 'Esercito dei 50 centesimi' cinese, utenti pagati per scrivere post o inserire commenti favorevoli al governo in blog e forum. Secondo alcuni questi militanti sarebbero circa 300 mila e il presidente Hu Jintao li ha definiti un “nuovo schema di guida dell’opinione pubblica”. In Iran, invece, sarebbero attivi 10 mila blogger assoldati per difendere in rete la rivoluzione islamica.
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