Esplorare tutto, fotografare tutto, rovinare tutto?

C’è un paradosso che profuma di kerosene e filtri Instagram: più esploriamo, meno capiamo. Più viaggiamo, più i luoghi si consumano sotto il peso delle nostre suole da trekking sponsorizzate e delle nostre storie “autentiche”. Viviamo un’epoca in cui l’avventura si è fusa con il consumo, e ogni tramonto spettacolare è solo un pretesto per aggiornare la biografia digitale. “To travel is to consume,” direbbe qualcuno che ha letto troppi articoli di The Atlantic e ha perso la capacità di stupirsi senza connessione Wi-Fi. Prendiamo il Jökulsárlón, la laguna glaciale islandese: venticinquemila anni di perfezione glaciale, sciolta in vent’anni di turismo-compulsione. Nel 2000, arrivavano in 50.000. Nel 2019, erano 400.000, nel 2025 100.000 solo nel mese di luglio. Un esercito di parka color pastello, bastoni da selfie e droni rombanti, tutti desiderosi di immortalare la “natura incontaminata” prima che qualcun altro la rovini. Il che, in fondo, è un modo elegante per dire: prima che la roviniamo noi. Per capire che il turismo è ormai un freddo calcolo economico in cui le comunità locali sono diventate estranei nella loro casa, non serve citare per forza Venezia, in cui ogni gondola è un backdrop, ogni calle un corridoio di scatti in una città da oltre trenta milioni di turisti, venticinquemila residenti, e un cuore che batte ormai come un souvenir elettronico in una vetrina di Murano. Un buon esempio è invece la Riviera Albanese, un tempo segreto sussurrato solo tra viaggiatori iniziati, che ha raddoppiato i visitatori in quattro anni, da 3 a 6,4 milioni. La sopracitata Islanda da 500.000 turisti nel 2010 a 2,7 milioni nel 2019, come se il pianeta intero avesse deciso di attraversare lo stesso sentiero di lava nello stesso giorno. Ogni step una foto, ogni foto un frammento di erosione. Si chiama “overexposure”, ma non solo in senso fotografico. Ogni luogo promosso come “segreto” cessa, nel momento stesso della promozione, di esserlo davvero. È la maledizione del like: ciò che viene mostrato, muore di esposizione. Le Galapagos lo dimostrano con crudeltà: un paradiso naturale reso fragilissimo dalla presenza di chi lo ama troppo e male. È come un fiore protetto calpestato da chi vuole solo annusarlo. Da qui la domanda: chi decide chi ha diritto di esplorare? È libertà o privilegio? Democrazia dell’accesso o selezione darwiniana del reddito disponibile? Avrebbe senso sperare che le comunità debbano essere attori, non comparse, nella pièce del turismo globale? A Machu Picchu, dove i visitatori sono quadruplicati in vent’anni, le autorità hanno dovuto imporre il numero chiuso. Anche il mito, a quanto pare, ha un numero massimo di biglietti venduti. Forse la soluzione non sta nel vietare, ma nel rinegoziare: un tavolo comune — reale o simbolico — dove turisti, residenti e amministratori decidano insieme cosa significhi “visitare” un luogo. Non attraversarlo, ma sostare. Non scattare, ma ascoltare. Forse il turismo sostenibile non è una moda verde, ma un ritorno al ritmo umano del viaggio: quello che concedeva tempo alle distanze, errori ai percorsi e rispetto ai silenzi. Ma torniamo a noi, armati dei nostri smartphone come piccoli dèi pixelati. Postiamo, tagghiamo, geolocalizziamo. Ogni volta che postiamo un’immagine, infliggiamo un’eco nel profondo di un luogo. Già: un’eco. E quell’eco si propaga, vibrando tra montagne e schermi, finché un altro pellegrino digitale arriverà a replicarlo con un’altra foto, un’altra posa, un altro impatto. È il turismo come algoritmo, la natura ridotta a backdrop del nostro ego. Come la bellezza sublime del Parco Nazionale di Yosemite ridotta a file di SUV e scatti sincronizzati al tramonto. La meditazione si dissolve nel traffico. La natura, un tempo maestra di introspezione, è oggi la scenografia di un gigantesco spot per noi stessi. E tuttavia, non tutto è perduto. Forse esplorare oggi significa imparare a resistere alla tentazione del consumo. Viaggiare non per accumulare ricordi da like, ma per ridurre l’impronta che lasciamo dietro. Rinunciare a essere un turista di massa come un essere «economicamente rilevante ma esistenzialmente ripugnante, come un insetto su una cosa morta», tanto per citare David Foster Wallace nel saggio sulle crociere “Una cosa divertente che non farò mai più”. Siamo i custodi del nostro tempo, non i suoi curatori di contenuti. E allora sì, esploriamo, fotografiamo, raccontiamo, ma con la consapevolezza che ogni immagine è anche una responsabilità. Il vero viaggio, in fondo, non misura chilometri ma profondità: come guardiamo, quanto rispettiamo, quanto sappiamo ancora restare in silenzio davanti a qualcosa di bello. C’è una scena, quasi una parabola laica che andrebbe mostrata in ogni volo diretto a Reykjavik, in The Secret Life of Walter Mitty. Sean O’Connell, il fotografo vagabondo interpretato da Sean Penn, osserva da lontano un leopardo delle nevi, “the ghost cat”, quella che nessuno vede ma che tutti inseguono. È un momento unico, fragile come il respiro che lo regge. Eppure O’Connell, invece di scattare, abbassa la macchina fotografica e sussurra: “Sometimes I don’t . If I like a moment, I mean me, personally, I don’t like to have the distraction of the camera. I just want to stay in it.” In quell’istante, una verità che nessuna fotografia potrà mai contenere: la bellezza non ha bisogno di essere catturata, ma abitata. È un invito sottile ma rivoluzionario, una forma di diserzione dalla cultura del mostrare, un ritorno al semplice gesto di essere presenti. Forse è questa la cura all’overdose di visibilità: imparare a non documentare tutto, accettare che alcuni momenti restino solo nostri, non perché segreti, ma perché veri. Perché, in fondo, come O’Connell ci suggerisce, restare dentro al momento, senza la distrazione del possesso, è forse l’ultimo modo rimasto per toccare davvero il mondo, senza rovinarlo nel tentativo di immortalarlo.

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Esplorare tutto, fotografare tutto, rovinare tutto?

Daniele Moretti