Zuzu: “Lo stile personale per me è una gabbia”

Il suo tratto è distintivo sebbene non sia mai uguale a se stesso. L’arte e lo storytelling di Zuzu sono una sorta di moto perpetuo. Un continuo cambiare, evolversi, cercare nuove sfide. Irrequieta e quasi terrorizzata dall’idea di accomodarsi su una zona di comfort troppo comoda per lei e per il pubblico, la fumettista salernitana ha da poco pubblicato il suo terzo libro, “Ragazzo”, edito da Coconino Press , una storia fi mascolinità fragili che faticano a esprimere i propri sentimenti in una società che ne condanna la vulnerabilità. Ospite di Lucca Comics & Games 2025, l’abbiamo incontrata per parlare del suo lavoro. Se “Giorni Felici” aveva una protagonista molto chiara, in “Ragazzo” questo ruolo è molto più sfumato. È un'opera un po' più corale. Sì. Diciamo che in “Giorni Felici” l'accento era su come quel particolare personaggio viveva le emozioni mentre con “Ragazzo” è successo un po' l'inverso: ho preso un'emozione, o comunque una famiglia di emozioni sotto il cappello del desiderio, e ho visto come vari personaggi la vivevano. Questo ha creato un fumetto dove non è il singolo personaggio ma proprio il movimento di diversi individui attorno a quel sentimento a costruire la storia. Come nasce “Ragazzo” dal punto di vista tecnico? Come nasce e si sviluppa l'idea? Perché non ha una trama tradizionale e lineare. E infatti neanche la scrittura è stata lineare e tradizionale. Sono partita proprio da queste fissazioni che poi precedono sempre la nascita di una storia, delle tematiche su cui ci si ossessiona, che ti tormentano. Però non avevo una storia. Avevo un'evoluzione emotiva del protagonista Francesco, magari, ma non sapevo come ci sarebbe arrivato. Quindi ho improvvisato. In che senso improvvisato? Facevo una scena per volta, senza conoscere la successiva. Anche rispetto ai due libri precedenti il processo creativo è stato molto diverso perché era pieno di pause anche lunghe, di settimane, dove magari non lavoravo fisicamente ma solo mentalmente, immaginando le cose che sarebbero potute succedere. La storia si è svelata a me mentre la disegnavo anziché essere anticipata dalla fase di scrittura. Lei ha uno stile di disegno che allo stesso tempo è estremamente riconoscibile, molto autoriale, però è come se fosse in costante cambiamento. Non c'è una sua storia uguale all'altra dal punto di vista del disegno. Come è nato il suo tratto? E questa evoluzione è il sinonimo di un work in progress o invece è proprio una scelta di voler cambiare ogni volta? Credo sia una scelta perché non credo così tanto nello stile. Per me è un po' una gabbia, qualcosa che finisce magari per condizionarti anche nelle scelte di cosa raccontare, non raccontare, come raccontarlo. Preferisco sentirmi libera da questa cosa e quindi a volte forzo la mano. In che senso? Dopo “Giorni Felici” avevo preso confidenza con la matita e mi sono detta: “No, adesso basta matita”, così sono passata ai pennarelli. Forse è anche una sfida che faccio a me stessa e ai lettori, perché ho paura che se hanno apprezzato qualcosa poi si aspettino che io confermi quello che ho già fatto mentre magari voglio portarli da qualche altra parte. Credo sia più un mio desiderio di sentirmi libera e mi sembra che lo stile rischi di mettersi tra me questa libertà. Poi da fuori ovviamente si percepisce una continuità nel tratto e quello forse è il vero stile, quello a cui non puoi fare a meno ed è nato negli anni, continua a evolversi per tutto ciò che ho visto che mi piace, per come cambia anche la mano, la postura. E questo stile come nasce? Ci sono tante cose che si mettono tra noi e la carta, è una magia che è difficile da spiegare a parole. Sicuramente il disegno dal vero è stato l'esercizio più utile per trovare un tratto. Uno degli elementi di continuità è il modo in cui disegna i corpi, che non sono sempre uguali, però sono sempre non stereotipati. E questa cosa, pur essendo il suo tratto la negazione del realismo, rende questi corpi molto realistici, molto veri. Sì, ciò che mi piace molto del corpo umano sono la sua fragilità e vulnerabilità, la vergogna di se stesso, sono tutte caratteristiche che lo rendono molto umano. Ecco perché disegnare un corpo perfetto, scultorio, non mi emoziona e cerco sempre il difetto e la stortura. Tra l'altro uno dei pregi del fumetto è il non avere degli attori in carne e ossa, poter lavorare con dei corpi che puoi modificare a tuo piacimento, che puoi deformare per comunicare meglio un movimento, un'emozione. Perché non sfruttare questa possibilità? Parallelamente al cambio di stile, c'è anche un cambio di tecnica. Nelle sue tre opere, ha scelto sempre tecniche diverse. C’è una costante voglia di sperimentare qualcosa di nuovo? Sì, come dicevo prima, e in più c'è anche l'aspetto legato al non sentirmi mai davvero brava, competente in quella cosa. Quella sensazione di novità quando inizio qualcosa di diverso mi piace perché un po' mi riporta all'infanzia, mi piace ogni volta prendere uno strumento che non conosco così bene, che non manovro in modo perfetto, mi diverte più che lavorare con qualcosa che conosco alla perfezione. Nelle sue opere si parla spesso, di relazioni che non sempre sono sane, è quella tossicità quasi quotidiana, che è un po' sottile, un po' più difficile da vedere. Sembra una tematica che le sta particolarmente a cuore, o che comunque le viene naturale trattare. Penso che le relazioni siano la nostra scuola delle emozioni, alleniamo e costruiamo noi stessi attraverso le relazioni con gli altri, è la cosa più importante che abbiamo e va studiata, che a me come lettrice affascina di più. Amo tantissimo i film, i libri, i fumetti che parlano di relazioni, non necessariamente amorose, ma proprio il modo in cui le persone si incontrano. In “Ragazzo”, soprattutto, sono questi incontri tra persone che non hanno molto in comune o che non hanno un futuro insieme a essere decisivi per le direzioni che prendono le loro vite. A volte anche qualcuno con cui non condivideremo un lungo periodo della nostra vita può influenzare tutto il resto della nostra esistenza. In “Ragazzo” si trova tanto del disagio giovanile, in particolare maschile. I maschi di oggi secondo lei sono irrisolti, confusi, disorientati? Certo, ma tutti noi lo siamo. Diciamo che, se c’è una differenza che ovviamente è soltanto culturale e non biologica, negli uomini questo tipo di fragilità viene maggiormente criticata, ci si sente meno liberi di esprimere questa vulnerabilità. A noi donne è concesso questo aspetto di fragilità, e nel nostro caso è magari interessante raccontare la rottura di altri stereotipi. Non esistono uomini che non devono chiedere niente, che sono sempre forti e sicuri di sé e io trovo molto interessanti raccontarli. Gli uomini che ho incontrato nella mia vita erano tutti fragili come me. Un altro aspetto delle relazioni che è molto importante nella sua narrativa è il ruolo del sesso, che non è mai celato, è sempre comunque esplicito, è spesso impulsivo e non sempre si percepisce come realmente libero da costrizioni sociali. Anche questa è una forma di realismo, perché in effetti pochissimi di noi hanno una vita sessuale o un rapporto col sesso libero, pieno di consapevolezza. È difficile perché siamo in un Paese cattolico, in un mondo pieno di giudizi, soprattutto quando si parla di persone adolescenti il sesso è ancora tutto da scoprire, però trovo anche molto romantico e affascinante questo rapporto così un po' timido con il sesso. Non mi viene da raccontarlo o censurarlo perché lo metto un po' sullo stesso piano di qualsiasi altro movimento, qualsiasi altra azione. A livello narrativo, per me, una camminata ha lo stesso significato di due persone che fanno sesso, sono due movimenti assolutamente neutri che io voglio osservare. Quali sono stati e quali sono i suoi maestri, gli autori che l’hanno ispirata maggiormente sia dal punto di vista artistico che dal punto di vista narrativo dello storytelling? Difficile rispondere. Ovviamente Gipi è l'autore che nomino sempre perché è quello con cui ho scoperto il linguaggio fumetto, quindi inevitabilmente ha avuto un'influenza molto forte. Poi però a influenzarmi penso che siano molto anche i romanzi che leggo, sono una lettrice forte, più di narrativa che di fumetti. C'è anche una tavola di “Ragazzo” dove ho messo su una mensola i titoli che mi hanno influenzato di più mentre realizzavo questo fumetto. Poi ultimamente trovo un po' di Altan in quello che faccio, credo che mi abbia influenzato molto perché da piccola in casa c'erano sempre i suoi libri di satira, magari non tanto La Pimpa ma cose più adulte.

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Gabriele Lippi