Rage bait, perché vogliamo così tanto provocare odio e rabbia online?

Prego, scomodati ché parliamo di guerra digitale. In chiusura di 2025, facendo un bilancio di come è andata, di come e chi siamo stati e fissando un’istantanea che se conservassimo in un’ideale capsula del tempo direbbe ai posteri come funzionassero e dentro a quale cornice socioculturale pascolassero gli essere umani di questi tempi, l’Oxford English Dictionary ha eletto rage bait come parola dell’anno. Si tratta di un gesto simbolico nel tentativo di fissare e trattenere qualcosa, oggi che tutto è veloce e scivoloso come una saponetta bagnata: non ci resta in mano niente, nell’epoca dell’Eldorado dell’immortalità la caducità impregna paradossalmente la cronaca, le nostre relazioni sentimentali, l’indignazione, l’impegno, il futuro. Laddove niente resta, nulla è importante: da chi muore a chi viene insultato, da chi viene ucciso a chi viene accolto con profusione di rami d’ulivo alle porte della città, ogni cosa si è fatta gassosa e volatile, rimanere è diventato inconcepibile, soffermarsi un verbo in disuso - mentre il Dictionary.com sceglie come parola dell’anno 6-7, selezionata pur definendola “ambigua e insensata”. Se un giorno a mo’ di tavoletta di argilla gli umani del futuro dovessero mai leggere questa testimonianza dell’anno 2025, amerei cogliessero che noialtri abbiamo vissuto tempi che non abbiamo subito bensì creato all’insegna del no sense, del vuoto di contenuto, dell’aborto della logica. Lo spirito di questo momento storico ci ha imposto velocità e scarsa memoria come dentro a un delirio, dove la mente non avendo accesso al significato si frammenta, si confonde, cessa di intendere e volere e così produce un’insalata di parole che poi, più calmi, si nega di aver pronunciato. Lettori scomodi del futuro: siamo stati questa roba qua. Più scemi che matti , limitati, involuti, rattrappiti. Siamo bocche aperte come nelle immagini metaforiche di scarsa arguzia: l’espressione bue, la mucca che guarda il treno, il pesce che abbocca. Perfette cavie da esca, sudditi dell’algoritmo, del consumismo, delle fake news, degli stratagemmi di chi - approfittando della galoppante e diffusa atrofia del pensiero - sfrutta due tecniche in croce di comunicazione e programmazione neurolinguistica per affermare i propri interessi di potere ed economici e la propria supremazia intellettuale. In una versione digitale del wannamarchismo tale per cui è lecito ingabolare gli stolti - di più: Gli stolti vanno ingabolati!, è imperativo quanto infilare il bottone nell’asola - l’esca per la rabbia va calata. Sì, perché è certo che funzionerà: gli utenti abboccheranno. Rage bait è l’espressione che si riferisce a tutti quei contenuti social programmati con il fine preciso di generare rabbia, quando non addirittura vero e proprio odio. Titoli sensazionalistici, opinioni a forma di sentenze dalla formulazione polarizzata all’estremo, provocazioni, costruzioni di frasi per aizzare la violenza dei commenti: che oggi abbia un nome rende il fenomeno forse più identificabile e potenzialmente contrastabile - non certo nuovo o poi così recente. Gli studi hanno infatti rilevato che si sia triplicato nel corso degli ultimi dodici mesi, non che sia nato ieri. Ne sono stata oggetto io stessa: qualche collega prende un mio inciso, lo usa per attribuirmi il contrario di ciò che ho detto tutto intorno e lo getta in pasto alla sua community. Per denigrare me? Mmmm, solo in apparenza. Lo scopo ultimo è esaltare se stesso, fare engagement, diventare virale, aumentare i numeri, non dover comprare i followers. Diventare me. Fare del proprio profilo un lavoro, guadagnarci. Va da sé che non funzioni, ma indubitabilmente produce il wharoliano quarto d’ora di celebrità, orgasmico e irrinunciabile. Perché è esattamente questo, il meccanismo: fare leva sulla rabbia, emozione pervasiva quanto sconosciuta nella sua vera essenza. Sfruttata per essere provocata, messa al servizio dei cattivi - salvo poi trovarci attoniti quando durante una rissa un giovane viene ucciso di botte, come se prima di quel momento il problema non si fosse posto. Come se le shitstorm non fossero altre forme di calci agli organi vitali, come se ad un certo punto non diventasse ridicolo ricordare ogni 25 novembre che la violenza verbale e la violenza fisica hanno in comune la parola violenza quindi sono solo declinazioni della stessa cosa. Perché vedi, oh mio lettore scomodo, eleggere rage bait come espressione 2025 significa null'altro che mettere a fuoco il fenomeno della violenza online. In che rapporti sono la rabbia e la violenza? Strettissimi, vi direi che sono sorelle. Non gemelle, però: non c’è la prima senza la seconda, mentre ci può essere violenza senza necessariamente rabbia. Mi spiego meglio. Se mi arrabbio e sottolineo se, perché potrei perfettamente non arrabbiarmi , la mia reazione emotiva avrà necessariamente una quota di violenza, dentro ad uno spettro molto ampio che va dall’offesa, al dislike, all’unfollow, al reato di diffamazione aggravata etc. La rabbia la riconosci perché quando c’è, produce qualcosa. È l’emozione meno neutra di tutte: non la nascondi, non la dissimuli, non passa inosservata. La rabbia fa succedere cose, sempre: è esattamente per non farle accadere che piuttosto non la sentiamo, la neghiamo, la lasciamo inutilizzata nella vita vera e poi magari la riserviamo allo sconosciuto sul web mai visto dal vivo, che investiamo delle reazioni risparmiate a nostra madre o a nostro marito. La violenza invece è la sua sorella maggiore: è più complessa, è più grande, “matura”, meno semplice da interpretare e capire. La violenza sa che non ha bisogno per forza della rabbia: per distruggere si avvale della noia, della paura, della frustrazione, del fallimento, del vuoto, dell’impulso, dell’onnipotenza, del Perché no, del Poi ci penserò. Alla rabbia serve un motivo, alla violenza basta se stessa. Occorre una ragione a farci arrabbiare , mentre può non servire niente di speciale per diventare violenti: la rabbia è puntuale, la violenza è strutturale. Si annida dentro di noi come un intestino, arrotolata e piena di anse, e può scatenarsi anche con poco perché non le occorre aver ragione, ma solo avere un pretesto: il bidet dell’influencer, la propaganda, PierAlfredo che dice robe tanto per dire che però tu prendi alla lettera come se fossero vere e soprattutto come se fossero dette a te. Sì, lettore scomodo: hai capito perfettamente, si tratta di manipolazione bella e buona, che sfrutta l’effetto contagio di un’emozione che non ha bisogno di passare dal filtro della coscienza , e si diffonde a macchia d’olio diventando velocemente virale più di ogni altra cosa. D’altronde, se siamo noi gli indignati non siamo quelli che fanno indignare. E se partecipiamo alla falange degli arrabbiati ci sentiamo parte di qualcosa che allo stesso tempo richiede una partecipazione davvero minima: offendere qualcuno, farlo dal semaforo rosso mentre scrolliamo, scrivere da un troll account pensando di stare comodamente con un piede dentro e uno fuori, fare commenti senza capo né coda per assolvere al mero bisogno di sfogarci, di buttare fuori, di passare a qualcun altro la patata bollente del nostro senso di inferiorità. Ci pigiano il tasto del fastidio, e noi reagiamo - sentendoci smart, nel giusto, financo autorizzati. Fatichiamo a renderci conto che siamo solo burattini, ovvero inanimati - cioè senz’anima, consapevolezza, spirito critico. Una società facile alla rabbia è una polveriera. Nel 2025, con il pulsante dell’esplosione in mano ai miliardi di persone che possiedono uno smartphone.

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Stefania Andreoli