Robida Collective: “Così abbiamo fatto rivivere un paese abbandonato”

Sulle montagne del Friuli-Venezia Giulia, al confine tra Italia e Slovenia, sorge un piccolo paesino con meno di trenta abitanti, un microcosmo rurale incastonato nella natura incontaminata: Topolò. Dopo lo spopolamento degli ultimi cinquant'anni, ora il borgo sta tornando a vivere grazie a un importante progetto ideato da Robida Collective. Attraverso iniziative culturali, workshop, spazi di coworking, residenze per artisti, Topolò sta brillando e respirando di nuovo. L'obiettivo del collettivo, composto da otto giovani artisti e architetti, è quello di “trasmettere che anche in un paese abbandonato può nascere qualcosa attraverso la cultura e le attività: si può fare, si può tornare a rivivere questi luoghi”, spiegano a Sky Tg24 Insider gli architetti Elena Rucli e Antônio Frederico Lasalvia, membri del collettivo. Uno degli aspetti più importanti che guidano il progetto di Robida Collective, finalista del premio internazionale Debut Award alla Triennale di Architettura di Lisbona, è l'idea di comunità. “Il concetto di insieme è per noi il punto di partenza che smuove tutto e che ci porta a utilizzare gli spazi, a metterne a posto altri attraverso opere di restauro. Il principale motivo per cui agiamo in uno spazio è quello di riqualificarlo, per noi e per tutti coloro che lo vivono temporaneamente o che lo abitano quotidianamente”, spiega Elena Rucli. “A differenza dei tradizionali architetti, noi non costruiamo nulla: semplicemente noi abitiamo gli spazi, diamo loro nuova vita”, sottolinea Antônio Frederico Lasalvia. Qual è la missione di Robida Collective? Elena: “Non parliamo di obiettivi o missioni, ma forse più di sogni e desideri. La nostra idea è proprio quella di trasmettere che anche in un posto così marginale, come Topolò, può nascere qualcosa, facendo sì che la gente si avvicini a questi luoghi e torni a riviverli. Come collettivo, noi viviamo lì tutto l'anno. Ma ci interessa anche dare spazio all'abitante temporaneo, cercando di ragionare anche sull'influenza che può avere sul modo di riabitare questi paesi che negli ultimi 50 o 60 anni si sono spopolati e, a causa del lavoro nelle città, si sono svuotati dei loro abitanti. Vogliamo portare l'idea che si può fare, semplicemente portando avanti progetti che creano relazioni. In questo modo le persone vengono a Topolò, trascorrono del tempo con noi e, finalmente, il paese può avere una seconda vita”. Il vostro progetto riflette sul modo di ripensare la vita nelle aree rurali. Elena: “Noi siamo un esempio molto specifico, perché ci troviamo in un'area geografica ben definita, ma il nostro modo di abitare questo paese può offrire un nuovo concetto di scala. La nostra idea è proprio quella di partire dalla scala della casa per arrivare alla scala del paese. Noi ci muoviamo da una casa all'altra per diverse attività, utilizziamo gli spazi e, così, ce ne prendiamo cura. Alla fine, curiamo non solo la nostra dimora ma anche l'intera Topolò. La strada diventa il nostro corridoio, il bosco diventa il nostro giardino”. Può diventare un modello anche per altri paesi... Elena e Antônio: “Sì, chiaramente è difficile da riproporre così com'è, però si potrebbe riprendere come idea iniziale per poter dare nuovamente vita ai tanti altri paesi in Italia che sono stati abbandonati. Inoltre, i paesi producono tradizionalmente agricoltura, ma uno degli aspetti più interessanti di Robida è trasmettere l'idea che anche un paese può produrre cultura, conoscenza”. In che modo quindi architettura e sostenibilità possono combinarsi? Antônio: “Gli architetti oggi sono tanto interessati a costruire, ma questo può diventare un problema. Abbiamo fin troppi edifici, e tutto ciò non è sostenibile. Ciò che caratterizza Robida è proprio questo: noi non costruiamo nulla, noi abitiamo gli spazi e diamo loro nuova vita. Portiamo avanti un nuovo modo di pensare gli spazi: prima li viviamo, poi capiamo come intervenire. Mentre la tendenza del mondo dell'architettura di oggi è l'esatto contrario: prima si progetta, poi si vive e alla fine si cercano soluzioni sostenibili. Iniziamo, quindi, ad abitare lo spazio, capiamo le necessità e lentamente, attraverso processi collettivi, cambiamo lo spazio”. Nel vostro progetto conta molto la comunità. Quanto pesa o dovrebbe pesare la comunità nelle città? Elena: “Nel nostro caso è il punto di partenza, perché altrimenti non funzionerebbe niente di quello che cerchiamo di teorizzare o portare avanti. Per noi conta molto l'idea di gruppo: non soltanto noi come Collettivo Robida, ma tutte le persone che fanno rivivere Topolò, gli abitanti temporanei, gli abitanti che c'erano prima. La comunità è quindi il punto di partenza che smuove tutto e che ci porta a utilizzare certi spazi, a metterne a posto altri attraverso opere di restauro. Il principale motivo per cui agiamo in uno spazio è anche quello di riqualificarlo, per noi e per tutti coloro che lo vivono temporaneamente o che lo abitano quotidianamente. Tra i nostri progetti c'è Izba, una sorta di co-working per noi e di piccolo bar per le persone che dopo la messa vogliono prendersi qualcosa da bere. Fermarsi lì, chiacchierare, semplicemente stare è una delle cose più belle del nostro progetto”. Cosa rappresenta per voi Topolò? Elena: “Quando ero bambina, Topolò era l'estate che aspettavo. Per me era l'utopia di vita, dove tutto accadeva con un valore più alto rispetto alla mia vita di tutti i giorni come studentessa. Topolò è sempre stato un posto con tantissimo potenziale, che stiamo cercando di mettere in atto concretamente”. Quale messaggio vuole trasmettere Robida Collective al pubblico? Antônio: “L'architettura può essere praticata altrimenti sia in un senso collettivo, che non viene da un individuo, ma anche che gli strumenti che gli architetti usano possono essere usati in modo diverso, quindi possiamo pensare allo spazio e alle sue relazioni in modo diverso”. Elena: “Vorrei sottolineare anche un aspetto molto importante, che è legato al tempo. Il nostro progetto è partito dal basso, è iniziato come qualcosa di spontaneo, poi si è costruito nel tempo. Abbiamo capito che le cose non devono essere fatte frettolosamente. Ormai, da più di dieci anni, portiamo avanti le nostre iniziative con piccoli cambiamenti. Mi piacerebbe trasmettere proprio questo: fare comunità non è qualcosa che avviene dall'oggi al domani, ma è una costruzione quotidiana fatta di piccoli gesti”. Come immaginate le città del futuro? Antônio: “La città del futuro dovrebbe essere come il paese. E questo per diversi motivi. Le città sono densamente popolate oggi, ma questo non garantisce una buona qualità di vita per gli abitanti. Penso che oggi ci stiamo sempre più rendendo conto che è insostenibile vivere nel modo in cui vive la maggior parte dei centri urbani. Nel contesto del paese, invece, le persone sono molto più aperte. Il modo migliore per immaginare il futuro delle città è pensare a qualcosa che sia il più possibile simile a un paese”. Siete ottimisti, quindi? Elena e Antônio: “Pensiamo che ci sia la possibilità di cambiare, se ci impegniamo a farlo. A volte è difficile essere ottimisti, ma penso che ci sia ancora spazio per sognare. E questo è anche il motivo per cui viviamo in un paese come Topolò, perché offre l'opportunità di uno stile di vita alternativo che in città non si può avere”.

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Silvia Donnini