"Vi racconto László Krasznahorkai, amico e Nobel inquieto e curioso"

Si sono conosciuti nel 2013 a Mantova in occasione del Festivaletteratura, mantenendo i contatti, fino a ritrovarsi a marzo di quest’anno a Firenze per la fiera Testo, dedicata all'editoria contemporanea. Francesco Cataluccio, esperto di letteratura dell’Europa orientale, può dirsi amico del Premio Nobel della Letteratura 2025, lo scrittore ungherese László Krasznahorkai. Un riconoscimento che gli è stato assegnato "Per la sua opera avvincente e visionaria che, nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte", si legge nelle motivazioni. Dal 1985, anno del romanzo d'esordio tradotto in Italia più di trent’anni dopo, fino agli ultimi libri, usciti con la stessa casa editrice Bompiani, c’è la parabola di uno scrittore che è andato via via allungando le frasi e sottraendo i punti, nel tentativo, forse impossibile ma sempre agognato, di restituire sulla pagina bianca la complessità della realtà e di un mondo dominato dal Male, che è connaturato alla condizione umana. Abbiamo cercato di ricostruire assieme a Cataluccio l’opera di László Krasznahorkai e di capire la personalità di questo gigante della letteratura europea. Chi è László Krasznahorkai? Ha gli occhi dolci ma un'aria molto amara. I suoi libri descrivono in modo bello dal punto di vista letterario la crisi della civiltà. Lui ha una forte tendenza a cogliere aspetti anche surreali della crisi del nostro mondo. Il suo libro più importante, a mio avviso, è “Melancolia della resistenza”: in una cittadina arriva una carovana, una specie di circo che espone una balena in stato di decomposizione. Quanto c’è di politico in questo racconto della crisi della civiltà? Dire più che politico la sua opera ha un respiro esistenziale. Interessante anche la sua evoluzione: negli ultimi anni ha trascorso un periodo in Giappone, si è molto avvicinato alla cultura buddista, lavorando sulla sua spiritualità. La politica a lui, secondo me, interessava fino a un certo punto. A interessarlo è la condizione dell'uomo, ma c'è un’intervista in cui dice di progettare un libro senza esseri umani. Era questa la sua idea. Perché appunto gli esseri umani, se torniamo al suo libro principale, hanno sempre qualche cosa di satanico. Lo vediamo purtroppo tutti i giorni. E questo tango, questo ballo di Satana per citare Satantango del 1985, è per lui la cosa più terribile dell'essere umano, perché è un circolo che si ripete in eterno. Invece vede appunto nella natura, negli animali una perfezione e una incapacità a usare violenza. Anche gli aspetti più violenti della fauna però sono sublimati rispetto al satana che sta dentro di noi e che alla prima occasione zampilla fuori e comincia a ballare. Per questo possiamo dire innanzitutto che ha una visione pessimista dell'umanità e questo "apocalittico" è interiore in qualche modo e non va ricercato nell'esterno ma nell'interno? C'è una frase alla fine de “La malinconia della resistenza", che poi è il motto del libro, ed è “Scorre ma non passa”. Questa è una sorta di parodia del frammento di Eraclito, del famoso “Tutto scorre”. Invece per lui appunto il male non scorre, il male è sempre presente nella nostra vita, nella nostra storia con continui riferimenti e ritorni. Lei, che è un grande esperto di letteratura dell'Europa centro-orientale, come lo contestualizza? Deve molto allo scrittore tedesco Winfried Sebald, che tra l'altro l'aveva molto apprezzato ed è stato uno dei primi a scoprirlo. Poi c’è una scrittrice che lo ha di fatto lanciato: Susan Sontag. In tutto questo non possiamo non sottolineare che tutti questi scrittori dell'Europa centrale hanno un papà che è Kafka. La cosa però che dobbiamo tenere presente è che lui ha lavorato moltissimo con il cinema. Cinque dei suoi libri sono stati tradotti in film dal regista ungherese Béla Tarr. Tra l'altro “Satantango” è diventato famoso proprio perché era un film incredibile e ha avuto molto successo. Lui ha sempre collaborato ai film. Poi ha rotto con Tarr e c'è stato una sorta di allontanamento, infatti poi non si è più occupato di cinema. Perché questo rapporto con il cinema? Si può dire che i suoi romanzi abbiano qualcosa di cinematografico. C'è uno stile che è quello del cinema del centro-Europa, cioè del piano sequenza, che è in armonia con le sue pagine molto dense di periodi lunghi, dove sembra non stia succedendo nulla ma in realtà accadono un sacco di cose. C'è una scena a Satantango dove si vede passare attraverso due case di questa fattoria collettiva un corteo di bestie. La macchina segue una vacca dopo l'altra. Il modo di scrivere è talvolta questo, di questa lentezza. Sembra che non accada niente, ma qualcosa in realtà è successo. Cosa vi siete detti l’ultima volta che vi siete parlati? Mi ha salutato e mi ha detto di essersi stabilito a Trieste e contava di stare a Trieste per un bel po'. Così con la sua consueta punta amara, sorridendo mi ha detto che gli risultava abbastanza insopportabile in questo momento vivere in Ungheria, però non voleva stare troppo lontano dall'Ungheria, come quando era in Oriente. Quindi Trieste gli sembrava un buon compromesso. Ci eravamo ripromessi di vederci lì ma poi non è successo. Comunicare con lui è abbastanza difficile, non risponde al telefono. Molto inquieto, irrequieto e curioso. Ha sempre trascorso lunghi periodi trascorsi all'estero. Secondo me lui fugge dalla noia e cerca nuove strade. Il primo lungo periodo è stato quello negli Stati Uniti, dove diventò molto amico di Allen Ginsberg e poi Susan Sontag l'ha scoperto, ma poi è stato in Oriente. Lui ha passato molti anni altrove. Il suo altrove era un modo per scoprire nuove cose, questo lungo periodo passato in Oriente lo ha cambiato, perché si è avvicinato al buddismo. La filosofia buddista lo ha convinto, gli ha dato una chiave per vedere il mondo. Che consiglio dà ai lettori italiani che vogliono affrontarlo? La sua è una letteratura che richiede un certo impegno, non sono testi facili, non c'è un plot narrativo effervescente. Però quando si chiudono i suoi romanzi e i suoi lunghi racconti, in realtà, poi rimane al lettore tantissimo, molte sensazioni forti. Quindi secondo me è una letteratura di grande spessore, credo che in questo caso il Nobel abbia premiato veramente una persona dal cognome impronunciabile, ma dallo stile sicuramente molto valido. Cosa l’ha colpita di più a livello umano? La sua timidezza, ha questi occhi molto dolci, quindi la prima impressione è di una persona estremamente disponibile. Poi però è anche molto tormentato. Sempre molto generoso, parla volentieri, racconta. C'è un'altra cosa che vale la pena sottolineare: il fatto che spesso nei suoi romanzi e nei suoi racconti sembra che lui parli di altro. Lo stesso ho visto anche nelle presentazioni: si presentava un suo libro, lui interveniva quando era il momento di parlare e cominciava parlando di tutt'altre cose. Poi veniva fuori che in realtà tornava tutto, perché la sensazione che parlasse d'altro non era un modo per prendere le questioni alla larga. No, era proprio un modo suo di ragionare, di pensare. Tutto è oscuro e quindi non si può pensare di agguantare l'oscuro direttamente, prendendolo di petto. Bisogna prima prendere strade laterali e prima o poi ci si arriva. Questo penso sia il suo modo di pensare. Quando è venuto a Firenze, si presentavano i suoi racconti, si parlava di questo racconto molto bello su Yuri Gagarin. E lui quando è intervenuto ha cominciato a parlare dei dipinti del Ghirlandaio e di Santa Maria Novella. Però ci è arrivato poi a quello che voleva dire, ma è arrivato al punto.

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Ludovica Passeri