Germano Antonucci: “Scrivendo La ragazza di luce sono tornato adolescente”

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L'esordio del giornalista abruzzese, edito da TerraRossa, è un romanzo di formazione attraversato dal noir, dal magico, dal fantasy. Una storia che ci interroga sul senso delle Catastrofi e sul significato del diventare adulti. "Sono tornato nei luoghi della mia giovinezza per raccontare il paradiso perduto di tutti, le estati della nostra infanzia"

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Nina e Ruben, due adolescenti abruzzesi dei primi anni Duemila, vivono in una quotidianità post-apocalittica tra prefabbricati, ponteggi, divieti di accesso, ruderi e macerie. Una frana si è abbattuta sul loro piccolo paese di montagna e sulle rispettive famiglie. Dopo la Catastrofe, niente è più come prima. La madre di Nina si dissolve nel nulla, il padre di Ruben non è più lo stesso. Assieme al coetaneo Niccolò, i due tredicenni decidono di andare a fondo e di non accontentarsi delle verità date. Nelle 200 pagine de “La ragazza di luce”, Germano Antonucci ci racconta il loro diventar grandi, con un romanzo di formazione incalzante e universale, attraversato dal noir, dal fantasy, del magico. Sembra dirci che per spiegare un mistero così complesso, come il passaggio dal mondo dei bambini a quello degli adulti, non basti il realismo. Abbiamo parlato di questo esordio edito da TerraRossa con l’autore.

 

Germano Antonucci

Da quanti anni lavora a questo romanzo d’esordio? 

Scrivo da quando ero bambino, poi per molto tempo ho in qualche modo soddisfatto questa necessità, che definirei fisica, facendo il giornalista, raccontando storie reali, di attualità. Negli ultimi anni sono passato a un ruolo manageriale, dove ovviamente il tempo per la scrittura giornalistica non c'era più, dovevo occuparmi di altro, pur lavorando ancora nel mondo dell'informazione. Mi gridava dentro l’urgenza di tornare all'atto fisico della scrittura. In passato mi ero già dilettato in modo un po' sporadico con la fiction. Durante il Covid, però, ho fatto un passo avanti iscrivendomi alla scuola Belleville di Milano. E il romanzo è nato lì, tra i banchi della scuola, in una forma ancora molto acerba. Finito il corso, sono andato avanti e alla fine tra una cosa e l'altra, ho impiegato quasi tre anni per chiuderlo, fino ad approdare alla casa editrice TerraRossa che mi ha proposto la pubblicazione. 

 

Lei è abruzzese, trapiantato da anni a Milano. Con questo romanzo è tornato in qualche modo alle origini?

Sì, assolutamente. Difficile fare autoanalisi, ma questa storia nasce, secondo me, dal bisogno di raccontare qualcosa che mi rappresentasse. Non a caso ho utilizzato come ambientazione quello che secondo me è il paradiso perduto di tutti noi, cioè le estati della nostra infanzia e adolescenza. Scrivere questo libro mi ha aiutato a capire cosa significhi essere adulti, padri e madri, e allo stesso tempo cosa voglia dire essere ragazzi e figli.



Come ha lavorato per trasformare ricordi e luoghi familiari in forma romanzesca?

Sono tornato ai luoghi che ho abitato quando avevo quattordici anni, tanto che nella fase iniziale del romanzo il paese era citato esplicitamente. Parliamo di Popoli, in provincia di Pescara. C’erano molti elementi reali. Poi però, visto che è una storia che ha dei tratti fantastici, questa aderenza alla realtà mi creava delle contraddizioni. Ho reso il tutto più essenziale, aggiungendo elementi inventati. Alcune caratteristiche restano, perché il fiume è effettivamente il fiume del mio paese, la croce è quella che noi chiamavamo davvero “la crocetta” e dove ci arrampicavamo, il fulcro di tutte le nostre avventure.

 

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Un ritorno alle estati della sua infanzia, diceva. Quanto può parlare invece “La ragazza di luce” ai ragazzi di oggi?

Ci sono delle caratteristiche dell'infanzia e dell'adolescenza che sono connaturate, poi però è chiaro che lo spazio e il tempo in cui si vive rendono molto differenti le esperienze. Forse adesso viviamo dei tempi in cui questa differenza si amplifica e bastano pochi anni di differenza per assistere a scatti generazionali. Nel romanzo ho cercato di catturare dei tratti comuni con i miei personaggi.

 

Partendo dalle storie di Ruben e Nina, è vero per tutte le generazioni che si diventa grandi senza i propri genitori?

Si diventa grandi mettendo in discussione i propri genitori, che è quello che fanno Nina e Ruben, non accontentandosi della verità che vi viene raccontata. Questo costa dolore, perché è il modo in cui si finisce di essere bambini e per i bambini i propri genitori, si sa, sono gli esseri più perfetti che ci siano. Poi c'è una rottura, c'è una frattura, ma questa credo sia fondamentale per crescere, una frattura che poi si ricompone. Se vogliamo è questa la piccola catastrofe che questi due ragazzi vivono nella propria interiorità: Nina nei confronti di sua madre e Ruben nei confronti di suo padre.

 

I genitori di oggi forse temono troppo le fratture senza riconoscerne il potenziale?

Sì è vero, io ho una figlia di dodici anni e quindi in quella fase è chiaro che la prima cosa che verrebbe in mente è di proteggerla e di essere sia un punto di riferimento sia un migliore amico.  E questo da un certo punto in poi è un errore, perché sì, bisogna essere dei punti di riferimento, ma bisogna anche essere degli specchi che poi i figli devono avere la possibilità di rompere, per trovare la loro reale forma. Ci preoccupiamo molto, ci preoccupiamo troppo, non è facile trovare un equilibrio.

 

Che cos'è la catastrofe? Quanto dobbiamo interrogarci sul senso della catastrofe nelle nostre vite?

Ci si aspetta che la catastrofe in qualche modo avesse a che fare con il terremoto dell'Aquila, perché è anche la storia ambientata più o meno in quegli anni. In realtà no, o almeno non in modo conscio. Secondo me la catastrofe è il pericolo che non ci siamo mai lasciati alle spalle, l'incertezza in cui viviamo tutti e da cui cerchiamo di difenderci. Poi ciascuno ha le proprie catastrofe, c'è un passaggio in cui arrivo a dire o a immaginare che ciascuno di noi sia la propria catastrofe. Quello che conta però è che oltre alla catastrofe c'è la luce che è il modo in cui noi cerchiamo di dare le nostre risposte, a volte in modo razionale, a volte rifugiandoci nella la magia, nel soprannaturale, nella superstizione, oppure nelle nostre personali convinzioni.

 

Ci sono anche delle sfumature noir. Che rapporto ha con il genere?

Pur apprezzandolo, non è un genere che ho frequentato assiduamente negli ultimi anni. Quindi è come se, in qualche modo, tornando ai luoghi della mia infanzia, abbia provato a scrivere secondo le logiche dei libri che leggevo al tempo. Ho passato un'adolescenza divorando tutti i romanzi di Stephen King, ovviamente, gli horror vari. Ero anche un affezionato lettore di fumetti come Dylan Dog. Tutte letture che ho messo da parte ma che è come se si fossero sedimentate da qualche parte. Poi, in realtà, ho cambiato totalmente gusti ma, stranamente, quando mi sono messo a scrivere, sono riaffiorati, anche dal punto di vista dell'ambientazione, dello stile. In un certo senso è come se avessi nascosto in un guscio il Germano adolescente. e con la scrittura fosse riemerso. Questa è una cosa che mi ha, in qualche modo, sorpreso, me ne sono reso conto mentre scrivevo, ho detto: “Guarda, sto scrivendo come se avessi vent'anni e avessi ancora quelle letture sul mio comodino”. La magia della letteratura.

 

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