Pescara e il suo ritratto “per caso”: la mostra diffusa di Matteo Fato

Una mostra diffusa, voluta dalla Fondazione La Rocca per Pescara, città nella quale Matteo Fato è nato ed è cresciuto; è qui che vive. Personale dell’artista abruzzese, si intitola Il difficile è dimenticare ciò che si è visto per casa ed è curata da Simone Ciglia. L’idea della mostra ruota attorno ad alcuni dei luoghi emblematici di Pescara, non soltanto istituzioni culturali come alcuni fra i principali musei – quello dell’Ottocento e quello delle Genti d’Abruzzo – o spazi espositivi come 00 Sul livello del mare, ma anche al di fuori dei luoghi canonicamente dedicati all’Arte. Gli spazi espositivi interessano anche progetti speciali che hanno natura temporanea: affissioni pubbliche; la realizzazione di un cavalletto – ad esempio nella zona del Porto Canale – interventi più performativi, come quello che l’artista ha fatto dipingendo le vele di una paranza che attraversa il Fiume Pescara in alcuni giorni; una canzone che Fato ha registrato e che viene diffusa da un veicolo sono che gira per la città. L’idea che lei ha avuto è quella di comporre il ritratto di una città, definito da lei un “ritratto per caso”. Perché questa definizione? Sono molto legato alla pratica del ritratto come pratica conoscitiva, nel senso che il ritratto, fondamentalmente, serviva e serve tutt’ora alla conoscenza di qualcosa che tu vedi ma che, in realtà, non vedi da tutti i lati. Qualcosa che tu hai davanti facilmente come un viso, ma in realtà non lo stai guardando, non lo stai vedendo. Quindi, in questo caso, il ritratto di Pescara cerca di far vedere tutti quegli aspetti e quei lati di una città che spesso non si vedono. Questo progetto vorrebbe offrire una possibilità, il presentimento di una possibilità che ogni città, secondi me, dovrebbe avere, perché ogni città esiste soltanto se c’è un museo. Il museo è una metafora del ricordo, della memoria e del presente, soprattutto, perché il presente esiste soltanto – come diceva Agnetti – quando qualcosa viene dimenticato nel modo giusto.ualcosa che tu hai davanti facilmente come un viso, m a La mostra parte e ritorna idealmente alla Fondazione La Rocca, con lo spazio diviso in due sezioni principali. Una è introduttiva e ha come fil rouge un’opera che ricollega vari altri momenti che lei ha realizzato insieme con Gianni Garrera, che è un filologo musicale, un drammaturgo, un traduttore. Garrera accompagna il suo lavoro attraverso una serie di statement teorici e uno di questi lei ha deciso di tradurlo in una scritta al neon che si dispiega nell’ambiente introduttivo della fondazione. La scritta recita “La Natura chiede alla Pittura di non dimenticarla”. Vuole parlarcene? In qualche modo è come se la Fondazione ci avesse commissionato un ritratto, perché commissionare un ritratto significa accettare compromessi, i compromessi di poter fare il ritratto di qualcosa o di qualcuno. La commissione del ritratto è una cosa che io amo tantissimo, perché ti imponi di fare qualcosa che tu non faresti mai, accettando il compromesso positivo, perché questo ti porta a dipingere qualcosa che non dipingeresti mai. In questo caso la città mi ha imposto un compromesso, che è quello di non poter stare da solo nel mio studio a dipingere, ma di dover fare un concerto a più mani. Questo era fondamentale e mi ha regalato anche una cosa nuova e cioè, per me che amo fare le cose in solitudine - il fatto che non tutto possa essere fatto da solo. Anzi, ci sono cose che vengono meglio se fatte con gli altri, ma questa è una convinzione da pittore e non me la toglierò mai del tutto. Nella scritta “La Natura chiede alla Pittura di non dimenticarla”, scritta che io ho anche tatuata, c’è un assunto, che è poi l’assunto che si trova in mostra e che ci ha messo davanti alla responsabilità del paesaggio, che è la responsabilità che uno deve prendersi quando decide di fare un’operazione del genere, un’operazione in cui la mostra diventa a cielo aperto. Il pittore sta nel suo studio, poi, porta i quadri in un altro spazio che diventa un altro studio, perché allestisce a suo piacimento, come a voler portare un’altra chiusura. In questo caso abbiamo deciso di aprire, di non fare una mostra chiusa in uno spazio, che quando è finita esci dal luogo espositivo e torni in città. In questo caso, la volontà della fondazione e mia, era quella di aprire e far uscire la mostra in città e il paesaggio, in questo caso, era fondamentale, affrontarlo nel modo giusto. Dipingere un paesaggio significa prendersi la responsabilità della memoria di quel momento del paesaggio. Io ho dipinto Il ritratto d’ignoto marinaio di Antonello da Messina perché è il ritratto di un marinaio anonimo che ci porta in barca in un tempo che noi non avremmo mai potuto vivere; si potrebbe dire che questo di Pescara è un ritratto anonimo che diventerà non più anonimo – speriamo – alla fine della mostra. Il paesaggio è il tema dominante della seconda sala della mostra, paesaggi spesso ispirati da autori che li hanno realizzati prima di lei. Possiamo dire che da parte sua ci sia il desiderio di dialogare con gli artisti del passato? Qui spicca anche il tema del naufragio e me ne sono accorto dopo del perché mi sono fissato con il dipingere naufragi. Credo sia perché questa mostra era una tempesta, nel senso che è qualcosa che gira intorno, è circolare e cerca di prendersi tutto. La tempesta è anche la metafora del tempo, di un qualcosa che si sta vivendo. Il "d'après" è una pratica fondamentale, è una grande occasione di comprensione del passato e del presente, e anche per fare due chiacchiere con un pittore perché, quando si fa un "d'après", si studia il lavoro di una persona che io avrei voluto conoscere. Avrei voluto parlare di pittura con Turner; avrei voluto parlarne con Rembrandt; con Fiorenzo Tomea, che è un pittore meraviglioso, ma per lo più sconosciuto, che ha dipinto per un decennio candele sul mare, facendo un atto poetico bellissimo. Quindi, il "d'après", è come tornare a essere uno studente che va in un museo per affrontare il problema del mestiere. Oltre che con lo studio e sui libri, la pratica del "d'après" avviene in altri luoghi come il museo. Fondamentale, per questa mostra, è il Museo dell’Ottocento. Ho avuto la fortuna di poter lavorare in questo museo e di confrontarmi con dei dipinti che sono dei gioielli. Io, però, non volevo invadere lo spazio, non volevo invadere gli occhi del visitatore che deve essere concentrato su quella che è la collezione del museo. La volontà è stata quella di abbassare lo sguardo, nel senso che la linea dell’orizzonte del museo deve rimanere la stessa. Lo sguardo si abbassa, anche per abbassarsi ai maestri, però, per me era un’occasione perché la pratica dell’opera nella cassa da trasporto è iniziata tanto tempo fa, perché è un’architettura concettuale non soltanto di conservazione materica, ma di conservazione anche poetica, nel senso che quando un quadro io lo metto in studio, il dipinto nella cassa, è come se io dono un pezzo di studio nomade. Quindi, il quadro non esce, resta, in qualche modo si impone anche nello spazio, ma nell’apertura la cassa non è più cassa, si trasforma in quella che è la cornice e sulla cornice c’è tanto da dire. Il Museo dell’Ottocento è un museo pieno anche di attenzione all’incorniciatura del quadro, quindi, sono due cornici di due tempi e sono anche uno spartito, nel senso che i miei sono dei toni più bassi, lo spartito principale è quello del museo. Ho sempre sognato di mettere la cassa da trasporto in un museo e sembra che un’opera sia temporanea e anche questo è importante, perché diventava – in qualche modo – una bugia appendere il quadro, perché è temporaneo. Questo dà a questa operazione una verità che per me è fondamentale sempre. Avete lavorato anche nel Museo delle Genti d’Abruzzo, che è un museo demo-etno-antropologico. Non un museo in senso stretto, perché qui si trova la Cultura materiale del territorio, la Storia dell’uomo in Abruzzo dall’Età Paleolitica, qui il progetto doveva essere diverso, pensato per il luogo e in risonanza con i temi del museo. Gli oggetti presenti in questo luogo, come ad esempio le forbici per la tosatura delle pecore, si inseriscono in modo naturale nel mio lavoro. È ovvio che ci sono stati degli interventi concettualmente necessari, come la pittura delle pareti del museo con il blu di Prussia, che è il colore che ricorre in tutti gli spazi, come dedica a Enni Flaiano e alla sua Autobiografia del Blu di Prussia. In questa mostra è importante citare la presenza delle incisioni, che ci sono in tutti gli spazi. Io sono docente di Grafica d’Arte all’Accademia di Belle Arti di Urbino e l’incisione è il mio museo antropologico, perché la pratica dell’incisione un archivio di quello che hai fatto, di quello che vorresti fare e di quello che non potrai fare in pittura e, dunque, lo fai in incisione. In mostra ci sono anche delle fotografie, esposte nelle varie sedi della mostra. Raramente ho esposto delle fotografie ma anche questo era importante farlo. Lo era per dare un’altra chiave di lettura della mia pratica artistica. Non so quante fotografie posseggo, scatto da trent’anni, ho un archivio immenso e ogni tanto salta fuori qualcosa. Stavolta, opere d’Arte e fotografie si sono accostate insieme, abbiamo aspettato e dopo aver strutturato la mostra abbiamo notato che queste fotografie diventavano delle didascalie, nel senso positivo del termine, delle didascalie temporali che scandivano la visione delle opere.

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Pescara e il suo ritratto “per caso”: la mostra diffusa di Matteo Fato

Sabrina Rappoli