Il traduttore Gianluca Coci: “Vi racconto l’altro Murakami”

Nantonaku, in caratteri giapponesi なんとなく, è la parola scelta da Gianluca Coci, professore dell'Università di Torino che ha tradotto alcuni tra i principali scrittori contemporanei del Paese del Sol Levante. La domanda che in questi mesi abbiamo rivolto a tutti i traduttori protagonisti di questa serie di approfondimenti su Sky Insider è sempre la stessa: qual è la parola più bella nella lingua che hanno studiato per una vita? E la parola più bella spesso coincide con la più intraducibile. Coci non ha scelto la sua preferita ma, di certo, una delle più interessanti: un avverbio e non un sostantivo. Significa "in qualche modo", "in un certo senso", "senza un motivo preciso". Ci spiega Coci che esprime un sentimento vago, un'impressione priva di una ragione precisa, una piccola speranza irrazionale di riuscita. Ed è forse proprio Nantonaku la parola che meglio sintetizza l’atteggiamento con cui un traduttore si siede alla scrivania per affrontare un testo giapponese con l’ambizione di rendere tutte le sfumature di quella storia in italiano. L’unico modo per lanciarsi nel vuoto è coltivare, appunto, “una piccola speranza irrazionale di riuscita”. Passare da un mondo fatto di ideogrammi a uno di lettere implica la necessità di “distruggere” per “ricostruire”. Un’operazione complessa, per certi versi impossibile, in cui la parte più difficile è proprio quella destruens. Abbiamo parlato con lo iamatologo delle insidie della professione di traduttore, di libri e del Giappone del 2025, in cui prevale un sentimento di paura che ha delle conseguenze sulla politica, ma anche sulla letteratura. Quando ha iniziato a tradurre? Ho sempre voluto fare il traduttore. Fin dalle scuole medie, una delle cose in cui mi dilettavo maggiormente era quella di tradurre poesie e di canzoni. Mi piaceva proprio l'idea di lavorare sulla lingua di partenza e poi portare nella mia quel testo, offrendo al lettore storie irraggiungibili e inaccessibili. Ma c’è un momento preciso in cui sono diventato traduttore. La mia prima traduzione è stata pubblicata all'inizio degli anni 2000. Si trattava di un romanzo degli anni Settanta di Abe Kōbō, “L'incontro segreto”. Parliamo di uno scrittore importante del Novecento giapponese che ha sfiorato più volte il primo Nobel e che ultimamente viene riletto perché si è celebrato da poco il centenario della nascita. Ha scritto libri come “La donna di sabbia”, “L'uomo scatola”, libri che adesso Mondadori sta ripubblicando. Qual è stato il libro più sfidante della sua carriera dal punto di vista della traduzione? I romanzi apparentemente più complicati sono quelli più semplici da tradurre. Faccio un esempio, Ōe Kenzaburō, premio Nobel per la letteratura nel 1994, scrive in un giapponese molto difficile e complesso. Non è un caso se la sua scrittura viene addirittura definita “la lingua di Ōe”. Ma del resto Kenzaburō è anche molto letterario, per cui trasferirlo in un’altra lingua lirica, come l’italiano, risulta abbastanza spontaneo. Invece, è la semplicità il problema. Ecco per quanto riguarda la resa in italiano, forse Furukawa Hideo è il più sfidante. Maria Rita Masci, a cui abbiamo dedicato un altro episodio di questa serie di approfondimenti dedicati ai traduttori, ci ha parlato del doppio tradimento quando si passa da un sistema di scrittura fatto di ideogrammi all’alfabeto. Come si relazione a questo aspetto per il giapponese? Credo effettivamente che le lingue che costringano il traduttore e i traduttori a “tradire” di più siano proprio il giapponese e il cinese, perché sono le lingue più lontane, per tradurre un testo bisogna veramente riscriverlo. Quali sono le fasi della traduzione? La prima fase è di dissoluzione. Si tratta di un’operazione paragonabile all’abbattimento di una muraglia, una muraglia di caratteri. Devo distruggere, sì, però senza perdere del tutto il senso, perché lo step successivo prevede di riprendere tutti i pezzi, i frammenti e rimetterli insieme per ricostruire. Il processo è più o meno questo quando ci si trova di fronte a degli ideogrammi: è chiaro che si perde qualcosa in più rispetto a quando si traducono in italiano altre lingue alfabetiche. Il segreto di una buona traduzione è distruggere sapientemente, vale a dire conservare tutte le macerie, senza polverizzarle, per poi poterle rimettere insieme nel miglior modo possibile. Lei voleva fare il traduttore? Sì, e la cosa che mi dispiace di più è che quella del traduttore non è, e forse non sarà mai, ahimè, una professione vera e propria, una professione ufficializzata. Non esiste un albo dei traduttori come quello degli avvocati, degli architetti. Sogno un albo dei traduttori letterari in primis. Il fatto che non ci sia mi mette in una posizione difficile in quanto insegnante, vivo un dilemma: cosa dire ai miei studenti? Ci spieghi questo dissidio. Quello che sono costretto a dire loro è che apprezzo tanto il desiderio e la passione che hanno, ma nel nostro Paese quella del traduttore non è una vera e propria professione perché bisogna fare anche dell'altro per mantenersi. Si può essere insegnanti universitari e traduttori, come nel mio caso, si può essere scrittori e traduttori, si può essere critici letterari, editor e traduttori. Purtroppo fare esclusivamente il traduttore o la traduttrice, tranne in casi molto rari, non è possibile. Ci dovrebbe essere un intervento politico e statale per cambiare le cose. Sia chiaro, sono stati fatti passi da gigante, perché molti colleghi si sono impegnati in questa battaglia, ma non basta. Pensa che il lavoro del traduttore nel futuro sarà seriamente messo a rischio dall’intelligenza artificiale? Beh, è presto per fidarsi e affidarsi completamente all’intelligenza artificiale, tra qualche anno sarà più performante, adesso è ancora immatura. I traduttori in carne e ossa serviranno forse meno, però se si eccede con questo strumento verrà a mancare una delle premesse del lavoro di traduttore, la parte artistica, perché il traduttore è un artigiano, ma non solo: è molto importante il processo creativo. E più lontana è la lingua di partenza, più questo aspetto è fondamentale. L'intelligenza artificiale schiaccia la creatività e in qualche modo la distrugge. Quello che osservo è che se do il testo in pasto a un software, poi sono costretto comunque a fare un controllo, un lavoro di editing. Ed è così che perderemo l’esperienza di scoperta del testo che passa per la distruzione. Lei traduce Murakami Ryū, l’autore che viene definito con una formula che non gli rende giustizia “l'altro Murakami”, perché ha lo stesso cognome dello scrittore che ha avuto un successo planetario. Cosa può dirci di Ryū Murakami? Difficile trovare le ragioni per le quali non ha avuto il successo planetario di Murakami Haruki. Parliamo sicuramente di uno scrittore più duro, più ostico, autore di thriller e di psycho-thriller, come "Piercing", "Audition", "Tokyo Soup", romanzi che trattano molto il sesso e offrono una prospettiva distopica sulla realtà. Più difficile rispetto all'altro Murakami, ma comunque godibile. Ha avuto forse la sfortuna di avere lo stesso cognome di Murakami, e non è una battuta tanto per dire, perché purtroppo anche i nostri editori, alcuni importanti, quando proponevamo l'altro Murakami, rispondevano che ne ce n’era già uno famoso con lo stesso nome e questa sovrapposizione poteva creare solo fastidio. È arrivato un po' tardi, voglio dire. C’è qualcosa che li lega oltre il cognome? In comune con Murakami Haruki ha sicuramente il tratto pop, soprattutto in romanzi come "Sixty-Nine". Però diciamo che lui eccelle molto nei thriller e anche nei romanzi a sfondo sadomaso, dove la lettura è più ostica, per questo magari può piacere a un certo tipo di pubblico, un certo tipo di lettore, ma non a tutti. Come posizioniamo in tutto questo manga e graphic novel? Non disdegno affatto manga e graphic novel. Ora ho dei giovani collaboratori e collaboratrici all'università di Torino che si occupano davvero in maniera specialistica di questi ambiti. Dal canto mio, occupandomi di letteratura moderna e contemporanea, manga e graphic novel fanno parte a pieno titolo della letteratura di serie A. E aggiungo che ci sono a volte graphic novel e manga che valgono ben più di un romanzo, quindi non capisco chi ancora oggi li ritenga non all’altezza. Soprattutto in una fase in cui il romanzo giapponese sta faticando e ci sono pochi scrittori giovani davvero interessanti. Di questo abbiamo parlato su queste pagine a proposito della mancata assegnazione del Premio Akutagawa e Naoki. I miei studenti e studentesse ormai sono molto più esperti di me in tema di fumetto, durante le lezioni ci sono degli scambi stimolanti. C’è un autore che vorrebbe tradurre e che non è stato ancora tradotto? Mi viene in mente subito uno scrittore, secondo me molto importante nel Giappone contemporaneo, che è Machida Kō, autore di Osaka che ha vinto anche premi importanti. Non è mai stato tradotto perché scrive prevalentemente usando il dialetto della regione di provenienza, quindi già nella sua lingua è abbastanza ostico. Parliamo di un personaggio un po' scomodo, è stato il cantante di una delle più famose band punk giapponesi negli anni Ottanta che si chiamava Inu, “cane”. Ed è anche un poeta. Ecco, possiamo inserirlo fra i venti scrittori giapponesi più importanti almeno da vent'anni a questa parte. Come vengono selezionati nuovi autori dalle case editrici? Partiamo dall’esempio di Machida Kō: l'interesse dei nostri editori è la leggibilità più che la qualità letteraria vera e propria. Se dovessimo parlare di numeri, direi che l’equilibrio per essere tradotti e pubblicati in Italia è 50% leggibilità e il 50% qualità letteraria e creativa. Ha già detto che il Giappone si trova in un momento di crisi a livello letterario, ma cosa ci dice del contesto socio-politico più generale. Si legge di estrema destra che avanza e di grande instabilità. Cosa sta succedendo? Lo sappiamo tutti, il Giappone è il Paese dove c'è al potere da sempre, con pochi momenti di discontinuità, lo stesso partito, il Partito Liberaldemocratico. I giapponesi sono molto restii al cambiamento. Poi è certo che c'è una ampia fetta di popolazione anticonformista che vorrebbe l'innovazione, però è comunque una minoranza rispetto a quella parte di popolazione che segue la tradizione. Nella cultura giapponese “cambiare” è il male. Ci fa un esempio pratico di questo atteggiamento. Pensiamo al teatro Kabuki che da centinaia di anni viene perpetuato sul palcoscenico con le stesse performance: lì un attore può essere considerato un grande se riesce a modificare anche soltanto il gesto di una mano rispetto agli attori del passato. A livello sociale in questo momento storico di forte immigrazione, assistiamo a una chiusura e un ripiegamento. Mai come adesso ci sono tanti stranieri e per questo è cresciuta la paura. E per evitare il cambiamento si arriva a questa capriola all’indietro, rappresentata dall’avanzata dell'estrema destra. Anche la situazione globale più generale spinge a tornare indietro e rifiutare il cambiamento. C'è un collegamento tra questa paura di cui parla e le criticità che riscontra dal punto di vista del mercato editoriale e della creatività? Sì, probabilmente sì. Io posso dire che adesso ci sono alcuni autori e autrici che addirittura rinunciano a scrivere per le case editrici major e tentano la via dell'indipendenza. Sono piccoli movimenti, che testimoniano il dissenso che esiste e la voglia di cambiare le cose. Purtroppo però non c'è la predisposizione delle case editrici a raccogliere questi cambiamenti. Quindi forse gli scrittori giapponesi più bravi sono scrittori che chissà se vedremo mai pubblicati, perché se si è troppo trasgressivi è difficile arrivare in libreria in Giappone e, di conseguenza, essere tradotti in Italia.

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Ludovica Passeri