Dora Šustić, dal diario al romanzo: “Do voce alla generazione Erasmus”

Ha iniziato annotando su un diario i suoi pensieri disordinati di ventenne trasferita dalla Croazia a Praga per studiare e sradicarsi. Ha finito in libreria con un romanzo d’esordio dirompente che vuole raccontare una generazione che è stata per troppo tempo, e ingiustamente, considerata come poco interessante. Nel mezzo i bagordi, gli inciampi, il sesso, gli hangover, le abbuffate, le dita in gola, la ricerca di senso e un amore distruttivo, la morte come presenza costante: il tutto passato al setaccio dell’autofiction che è un’esigenza artistica profonda e trasforma il vissuto in letteratura. “Già mentre scrivevo sul mio quadernino mi sono resa conto che avevo cominciato a romanzare quello che mi accadeva”, racconta a Skytg24 Insider Dora Šustić, autrice croata, classe 1991, de “I cani”. Portato in Italia grazie a Bottega Errante e al lavoro di scouting della traduttrice Sara Latorre, questo romanzo segue il “ritmo di Praga”, in cui si svolge la parte più consistente della storia, ma si allarga a tanti luoghi diversi, a cominciare da Rijeka , dove Dora è cresciuta, passando per la Spagna e la Turchia. Appena arrivata nella città delle cento torri per frequentare un corso di sceneggiatura, la ragazza incontra il fotografo turco Leon: è molto più grande di lei, scavato e piegato da un un lutto che non ha mai accettato, la morte della moglie Ayna. È l’inizio di un amore folle vissuto con il presagio che non possa durare a lungo. A Dora di quell’uomo triste resterà solo un album fotografico conservato in una scatola di scarpe: gli scatti all’interno sono stati realizzati da Leon per immortalare i galgos, i tipici levrieri spagnoli sfruttati per la stagione della caccia e poi uccisi o abbandonati. Un’eredità fotografica che la porterà a Cadice per chiudere il cerchio, sulle tracce di Ayna, alter ego tragico della protagonista, e di una riconciliazione, forse impossibile, con Leon. Tra un treno, un aereo, un bus, Dora vive in una dimensione europea senza barriere, la stessa che, per primi, i nati negli anni Ottanta e Novanta hanno potuto sperimentare. È una figlia del benessere e del privilegio, cresciuta senza traumi, che fatica, nonostante tutto, a trovare un centro e un posto in cui sentirsi veramente a casa. Dove e come è iniziato tutto? Ho sempre avuto l'abitudine di tenere un diario, è stata una parte molto importante della mia vita fin da quando ero bambina. Quando mi iniziai a cimentare con la letteratura, scrivevo poesie, racconti e recensioni. Mentre vivevo a Praga e mentre stavo vivendo la storia d'amore di cui racconto ne ”I cani”, annotavo tutto nel mio diario. Scrivevo così tanto che a un certo punto ho capito che avevo tra le mani un sacco di materiale e stava diventando qualcosa di più, perché stavo romanzando le cose che mi succedevano, inventando storie. Ed è interessante perché è esattamente la stessa cosa che sta succedendo ora con il nuovo libro su cui lavoro. Ecco, a un certo punto ho smesso di scrivere sul diario e ho aperto un nuovo quaderno scrivendo frammenti, racconti, che poi sono diventati un capitolo, due capitoli, raccoglievo scene e alcuni spunti. Come si passa da un diario privato a un romanzo? Abbastanza presto, in realtà, ho capito che doveva essere un libro lungo, perché volevo semplicemente esplorare all'infinito quel vissuto. Un racconto non bastava. Questo è un romanzo che si basa su un gioco di specchi perché c'è Dora Šustić, c'è Dora il personaggio, c'è Ayna, la moglie defunta di Leon, e Ayna in turco vuol dire proprio “specchio”. Come è riuscita a lavorare su tutti questi riflessi di te stessa? Innanzitutto, volevo davvero scrivere una storia nella storia, perché all'epoca dei fatti che racconto stavo scrivendo una sceneggiatura che era il mio progetto di laurea, ed ero davvero molto confusa. A cosa avrei dovuto lavorare? Alla sceneggiatura per l’università o avrei dovuto scrivere un romanzo? Sentivo già di essere al bivio e mi interessava mantenere questo elemento. Molti dei frammenti del romanzo, molte parti, li ho scritti in terza persona. Perché era più facile per me capire cosa stesse succedendo, piuttosto che utilizzare la prima persona. A volte è molto più facile scrivere in terza persona. Credo che il fulcro del libro risieda proprio in questa sensazione di essere un'imitazione di qualcun altro, un riflesso, la seconda in ordine di importanza, e stare con qualcuno che ama di più qualcun altro. Anche se quella persona è morta, anche se nei suoi confronti non si può provare gelosia, in senso tradizionale. Raccontare una storia d’amore è forse la cosa più difficile che ci sia. Non ci ho pensato molto. Ho scritto senza preoccuparmi di quello che stavo facendo. Questo è stato possibile perché non venivo da studi di letteratura. E la modalità con cui ho iniziato tutto, un diario, mi ha portato a concentrarmi solo su me stessa. Per questo penso che il libro sia molto egocentrico, perché parla soprattutto di me. Scrivere questo libro l’ha aiutata? Sì, sono riuscita a elaborare quello che era rimasto irrisolto. Finito il libro, l’ho mandato all’uomo con cui ho vissuto la storia d’amore tormentata di cui racconto in forma romanzata nel libro. Ho chiuso il cerchio. Lei è nata nel 1991, l’anno in cui la Croazia proclamò l’indipendenza dalla Jugoslavia a trazione serba, ha vissuto i primi anni della sua vita durante la guerra che seguì. Come ha influenzato tutto questo la sua vita? Penso che la maggiore influenza su questo sia stata il mio desiderio, molto precoce, di andarmene. E d'altra parte, ora che sono tornata a Zagabria, sto davvero lottando con la paura di essere bloccata nel passato, perché la Croazia ha una cultura davvero satura di passato. E forse c'è qualcosa di questo nel mio libro, perché anche io risento di questa mentalità e sono molto legata al passato, meno all’idea di futuro, mi crogiolo nella malinconia. Forse è parte del mio essere croata, balcanica. Nel romanzo indago i precedenti, l’archeologia dei personaggi, indugio sulle cose accadute prima. Ma più di ogni altra cosa, credo che sia proprio il desiderio di andarmene, di avere una prospettiva completamente nuova sulle cose, di tirarmi fuori da questa infinita transizione postbellica e di farlo immergendomi in un luogo dove le persone parlano un’altra lingua, per soddisfare il desiderio di ricominciare davvero da capo, da zero. E ora cosa sente? Da quando sono tornata a Zagabria, ho di nuovo questo desiderio di ricominciare da capo. Appartengo a quella generazione che per prima che è stata davvero libera di muoversi. Volevo racchiudere nelle pagine questo spirito che deriva da un fatto che è stato fondamentale: siamo tutti andati in Erasmus, abbiamo studiato tutti chi prima o chi poi all'estero, perché abbiamo avuto a disposizione le borse di studio, perché non è mai stato così facile ottenere visti e documenti. E questo discorso vale anche per la Croazia prima dell’ingresso in Unione europea. Tutti i miei amici hanno studiato all'estero, nessuno vive più a Rijeka, la mia città natale, a un certo punto ci siamo resi conto di essere sparsi per l’Europa. Vede solo aspetti positivi di questa apertura? Parliamo di un’enormità di vantaggi. Penso davvero che le persone che hanno 18 anni dovrebbero andarsene di casa immediatamente. Ma d'altra parte, questa esperienza "Erasmus" fa sì che la tua identità in qualche modo si dissolva. In un certo senso, per alcuni anni, perdi davvero il senso delle tue radici. Perdi la tua lingua ed è successo anche a me: per sette anni ho parlato principalmente inglese e ceco. L’uso del croato era limitato a un paio di volte a settimana con mia madre al telefono o a qualche scambio con amici serbi. È un po' come se ti staccassi dalla tua lingua, ti staccassi dai tuoi genitori, tutto questo si trasforma in un trauma transgenerazionale e lo racconto nel libro. Cosa significa trauma transgenerazionale? Quando ci sei dentro non te ne accorgi, a nessuno importava. Con questo romanzo volevo catturare la sensazione di essere in un certo senso spaesati, improvvisamente messi in una bolla che è come un parco giochi: amore, droghe, passione, sesso. E poi improvvisamente questa bolla diventa la tua prigione o diventa claustrofobica. E qual è il posto che chiama casa ora? Non ne ho idea. In che modo Rijeka, città di confine, ha influenzato la sua vita e scrittura? È tradizionalmente una città portuale, quindi la gente era abituata a confrontarsi con l’Altro, con l’andirivieni e a fare i conti con il fatto che prima o poi le persone se ne vanno. Ed è anche più multiculturale, più aperta e più libera di altre città della Croazia. Voglio dire, è sempre stata fino ad oggi una città di sinistra. Quindi forse è simbolico che io sia partita da Fiume, metaforicamente imbarcandomi verso l’ignoto. Non sono sicura di come si colleghi con il libro. Ma penso che ci sia qualcosa di vero, l’essere nata in questo posto è stato una sorta di punto di partenza di un viaggio. Prima o poi come tutti sarei dovuta andare via. Quando ho letto il suo libro non ho pensato solo al suo connazionale Dino Pešut, portato in Italia sempre da Bottega Errante e tradotto sempre da Sara Latorre. Ho pensato a un'altra scrittrice, macedone del Nord, che è Rumena Bužarovska, soprattutto per uno dei suoi ultimi libri che parla proprio del tema della partenza e del ritorno . Si sente di appartenere a una generazione di scrittrici balcaniche? Mi sento un po' più europea che ex jugoslava, forse solo per via degli studi e di come mi sto avvicinando sempre di più a quell'area. Ma ho le idee confuse a riguardo. Quali sono le fonti di ispirazione di questo libro? Beh, una delle principali ispirazioni è l'intera opera di Marguerite Duras, perché ho scritto una tesi su di lei e per due anni mi sono dedicata al suo studio e alla lettura sistematica delle sue opere. Tutto ciò che accade a Praga e Praga stessa mi sono stati molto ispirati da ciò che ho letto in Marguerite Duras e anche, soprattutto, dal film, Hiroshima Mon Amour tratto da un suo soggetto. Mi riferisco al peso che ha la città sulla storia d'amore e il fatto che il libro sia attraversato dal fantasma di una donna che incombe. Mentre scrivevo non avevo coscienza della contaminazione, ma ero così piena di lei che era inevitabile. Cosa l’ha aiutata a scrivere il romanzo a livello formale? Il libro che mi ha aiutato forse è un po' mainstream, ma quando ho letto Norwegian Wood di Murakami, ho capito come strutturare la storia, come andare nel passato e poi tornare al presente e poi ancora nel passato. E forse la terza fonte di ispirazione è stata Bekim Sejranović, autore ex jugoslavo. È un po' bosniaco, un po' croato, un po' serbo, un po' di tutto. Uno scrittore meraviglioso. Era un bohémien. Scriveva senza filtri di droga e feste ma con una prosa intrisa di malinconia che conservava allo stesso tempo un tono potente e diretto. Quindi mi ha influenzato, perché l'ho letto quando ero verso la fine del romanzo e lavoravo proprio sul tono. Zagabria è stata storicamente una città molto vivace dal punto di vista letterario, è ancora così? Zagabria è una comunità molto piccola, ma ha una vibrante atmosfera culturale. Ci sono un paio di festival letterari, scrittori prolifici, che collaborano tra di loro. Rispetto a Belgrado è una città noiosa, ma la letteratura e il teatro hanno dei luoghi sicuri. E a proposito di Zagabria, a inizio luglio se ne è parlato molto per via del concerto del cantante di estrema destra Thompson che ha riempito uno stadio con mezzo milione di persone. Cosa ci racconta questo fatto della Croazia di oggi? Non mi sento affatto a mio agio nel mio Paese, ho un desiderio immenso di trasferirmi, di andarmene, che come abbiamo sviscerato è una costante. Dovete pensare che per quella data la capitale è stata chiusa, e metà della città è rimasta bloccata. Al concerto ha partecipato mezzo milione di persone. E la Croazia ha 4 milioni di abitanti. Mezzo milione di persone, quindi, sono un ottavo dell'intero Paese, persone che hanno pagato un biglietto per l’evento di una persona che elogia il genocidio del popolo serbo, utilizza slogan nazionalisti e ustascia . Al di là della partecipazione di massa, c’è il tema politico: il governo e il comune di Zagabria sono impotenti quando si parla di questi mafiosi di estrema destra, fondamentalmente perché hanno paura di Thompson. Il sindaco, che appartiene all’area sinistra-verde, non poteva dire nulla. Ciò che va sottolineato è che Thompson per anni è stato bandito, ma ora la situazione si è ribaltata, chi è contro di lui viene considerato dalle autorità un deviante. La Serbia sta vivendo un exploit nazionalistico e come abbiamo scritto su SkyTg24 Insider il negazionismo nei confronti dei crimini delle guerre balcaniche non è mai stato così forte. Dall’altra parte la Croazia con tutto quello che stai raccontando. Sono tornati gli anni Novanta o non sono mai finiti? Sì, di nuovo gli anni '90, è solo che è tutto un po' più selvaggio a causa di questo ipercapitalismo, non c'è più potere monetario, il potere è altrove, in mano a pochi. Non c'è una vera e propria istituzione superiore come la NATO, l'ONU, meno che mai l’Ue, che possa effettivamente fare qualcosa, Tutto sta cadendo a pezzi. È quello che succede quando il capitalismo selvaggio si innamora del nazionalismo e ora si stanno in un certo senso incontrando. Una volta sembrava più facile riconoscere il bene dal male. Ora non ci sono buoni e cattivi. L'Ue per lungo tempo ha rappresentato una speranza ma ora questa speranza si è spenta. L'Unione Europea non è più la brava persona della situazione, basti pensare all’inazione sul fronte del genocidio a Gaza. È esattamente l'opposto. Ma ora c’è un’altra questione che mi preoccupa particolarmente. Cosa? Dal primo gennaio 2026, il servizio militare in Croazia tornerà obbligatorio dopo 20 anni. Il Paese è in una fase di militarizzazione. Avremo meno soldi per la cultura, più soldi per l'esercito, più soldi per le armi, e i ragazzi che hanno 18 anni, di nuovo, devono rivivere tutto questo. Il primo passo verso il fascismo è proprio la militarizzazione della nazione. Come cresceranno i diciottenni croati di oggi, con quale modello? Al momento sono piuttosto pessimista su tutto.

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Ludovica Passeri