Bibbiana Cau: “Sono un’ostetrica che ha studiato per diventare scrittrice”

“Provo una vertigine e devo ancora rendermene conto. Io non sono neanche attiva sui social”. Bibbiana Cau è incredula e un po’ emozionata - non è abituata alle interviste. Il suo romanzo d’esordio “La levatrice” da più di un mese è in classifica. Per l’esattezza nella top ten dei libri più venduti da sei settimane consecutive. A pubblicarlo Casa editrice Nord che solo due anni fa portava nelle librerie un altro esordio eccezionale, quello di Francesca Giannone con “La portalettere”. Cau, sarda della provincia di Oristano, ha alle spalle una carriera quarantennale da ostetrica e degli studi in Storia sociale intrapresi più tardi per assecondare un desiderio di conoscenza che non si è mai esaurito. All’intersezione dei due percorsi una tesi su come è cambiato il modo di nascere negli ultimi cento anni, che ha sentito l’esigenza di trasformare in romanzo per far uscire dall’invisibilità le esistenze dimenticate e bistrattate di quelle figure che per secoli hanno presidiato gratuitamente la salute femminile, accompagnando e supportando le puerpere, senza chiedere nulla in cambio. Per Cau scrittrici non si deve per forza nascere ed il suo è un caso da manuale di come la scrittura sia un mestiere che si possa imparare passo passo. Così, di corso in corso, di anno in anno, hanno preso vita sullo sfondo di una Sardegna rurale Mallena e Angelica, due donne di inizio Novecento, l’una llevadora che assiste le partorienti attingendo a un sapere antico tramandato dalla madre e l’altra ventenne, infermiera certificata in un’epoca in cui l’avere un diploma è considerato peccato di hybris per una ragazza in età da marito. Abbiamo raggiunto Cau con una videochiamata. Alle sue spalle una stanza zeppa di libri e appunti che tradiscono un’attitudine - come direbbe lei - a “non smettere mai di studiare”. “Questo è il luogo più tranquillo della casa, così non devo espatriare gli altri familiari”, sorride, mentre comincia a raccontarci la sua storia. Con una richiesta iniziale che dice molto della sua personalità e della sua apertura: darci del tu. Qual è la genesi de “La levatrice”? La definirei un po' particolare, nel senso che io ho sempre continuato a studiare parallelamente al lavoro. Per cui 18 anni fa, quando avevo già più di quarant’anni, a conclusione di una specialistica, ho scritto una tesi in Storia sociale su come è cambiato il modo di nascere negli ultimi cento anni. Spulciando negli archivi storici, nei saggi, in tutta la documentazione a mia disposizione, ho scoperto la complessità di queste figure che presidiavano le nascite: tutte donne che prestavano gratuitamente un servizio fondamentale per la salute femminile, senza scolarizzazione, né formazione, e che per questo non sono mai entrate nella storia ufficiale. Le voci che avevo incontrato in archivio mi ritornavano in mente, non riuscivo a non pensare a loro, a liberarmene. Come farle uscire dall'invisibilità? Pubblicare la tesi non sarebbe bastato, quindi mi sono dovuta mettere a lavorare, nel senso che ho dovuto imparare a scrivere per trasformare questo materiale, che pure aveva un suo valore, in un romanzo che potesse arrivare un po' al cuore di tutti. È molto interessante perché c'è una doppia operazione. Prima far emergere queste storie dalle carte - operazione archivisticamente e storiograficamente complessa - e poi dare loro una forma narrativa. Come si passa dall’archivio al romanzo? Gli archivi e le carte dei tribunali sono stati molto importanti, perché quando queste donne reclamavano qualche diritto le istituzioni avevano il coltello dalla parte del manico: “Stai alzando la testa, allora ti denuncio per esercizio abusivo della professione”. Hanno lasciato traccia nei documenti giudiziari per le cause a loro intentate. Inoltre, quando qualcosa andava storto durante il parto, ricadeva su di loro la colpa. Ricordiamoci che erano tempi in cui la mortalità materna e neonatale era altissima. E poi i registri dell'anagrafe, dei battesimi, nelle parrocchie, insomma c'è un po' di lavoro e tanti fronti da esplorare. E come sei arrivata al romanzo? Ho dovuto frequentare dei corsi, anche se “dovuto” forse non è il termine giusto. Mi ha fatto piacere ovviamente. Ho fatto questa scelta: se devo fare qualcosa, la devo fare bene. Visto che avevo dedicato tanti anni alla ricerca su quei temi non potevo fare un lavoro approssimativo. E poi, insomma, io ho sempre studiato, è una mia attitudine. E così ho frequentato dei corsi di scrittura, tanti corsi di scrittura: da lezioni tenute all'ASL sulla medicina narrativa a quelle di Eleonora Sottili alla Scuola Holden, poi mi sono formata con uno scrittore molto raffinato, Marco Mancassola. Penso che ci siano persone molto più brave di me che fanno quello che ho fatto io in un tempo molto più breve e con meno sforzo, grazie a delle competenze endogene maggiori. Però non era alla mia portata, quindi io ho impiegato un po' di anni per arrivare a questo romanzo. Ho fatto corsi persino sulla sensorialità nella scrittura, perché questo è un romanzo fatto di corpi, di tatto e di odori. Sono stata un'ostetrica, per oltre 40 anni ho fatto questo, avevo bisogno di formarmi in modo serio per poter fare un lavoro differente. Ci ricordi con la tua testimonianza che la scrittura è un mestiere che si può imparare. Io sentivo la necessità di mandare un messaggio con queste storie, con queste vite dimenticate. Quindi volevo farlo nel migliore dei modi, considerato che ho anche un'età. Quindi non sono nella fase di sperimentazione per prove di errori. Questa era la mia grande occasione. “La levatrice” è un romanzo che in molti hanno definito “femminile” perché mette al centro le voci delle donne, ma con la parola femminista che rapporto hai? Io ho partecipato al grande movimento del ‘77 - non il ’68 perché non ho un'età così avanzata - però ho vissuto il fermento degli anni Settanta e quei temi sociali legati al femminismo, li ho vissuti nei collettivi, li ho vissuti nelle piazze. Penso che ci sia ancora molto da fare, dobbiamo ancora trovare un metodo efficace per superare certe resistenze, quindi la strada per noi donne è ancora lunga. Cosa manca al femminismo contemporaneo? Abbiamo raggiunto tanti risultati, li dobbiamo difendere, però dobbiamo anche trovare un linguaggio più efficace, dobbiamo dialogare, non dobbiamo arroccarci su posizioni troppo rigide che oggi come oggi forse creano più conflitti e problemi che dialogo e vantaggi, secondo me. A proposito di conquista, quella ragazza del ‘77 avrebbe mai immaginato che certe conquiste potessero un giorno essere messe in discussione o a rischio, nel mondo come in Italia, a cominciare dall’aborto? No, non me lo aspettavo assolutamente che potesse essere messo in discussione, come non mi aspettavo neanche che ci sarebbe stato un passo del gambero, perché per molti versi stiamo regredendo, stiamo perdendo parte del terreno conquistato. Sembra che stiamo andando avanti per alcune cose, ma in realtà non vedo tutto questo progresso in termini di considerazione delle donne nella società: dal riconoscimento nel lavoro alla possibilità di decidere se procreare o meno, passando per il sostegno economico e sociale quando si fa una determinata scelta di genitorialità e parlo quindi di welfare. Le donne oggi sono chiamate a essere vigili e a non soffermarsi su piccole cose formali che sappiamo già che non ci porteranno a niente. Ci serve l'unità di intenti tra noi, perché alle volte scarseggia. L’aggettivo “tardivo” che si utilizza spesso in accompagnamento a “esordio” per sottolineare l’età non giovanissima dello scrittore e della scrittrice non mi piace, ma non si può negare che hai vissuto tutta una vita prima di arrivare in libreria. E non rappresenti l’unico esempio italiano: pensiamo a Simonetta Agnello Hornby, a Donatella Di Pietrantonio… Senti di avere qualcosa in comune con queste colleghe? Chiamiamolo esordio “maturo”. Beh, io credo di sì, a un certo punto c'è la consapevolezza che si vuole dar voce anche ad altro, oltre al tuo quotidiano che alle volte può andare stretto. Leggevo un articolo su Donatella Di Pietrantonio che per tutta la vita ha fatto altro, sino alla soglia dei cinquant'anni e poi ha sentito l'esigenza della scrittura, proprio come me. Hai rimpianti? Io ho sempre amato molto il mio lavoro e da questo punto di vista non rimpiango niente di tutto il mio percorso, di quello che ho fatto, ma non mi bastava più. Ho voluto raccontare il mio mestiere utilizzando un filtro romanzesco per mettere in luce questa storia travagliata delle donne al servizio delle nascite. Come è cambiato il parto da quell’inizio di Novecento, che fa da sfondo al tuo libro, a oggi? Siamo passati da un mondo femminile che era quello legato alla nascita, con una scena del parto in cui comparivano solo attrici donne, a una medicalizzazione e ospedalizzazione del parto che vede il protagonismo maschile dei medici, anche se adesso sempre più donne sono ginecologhe e questo gap si sta riequilibrando. Questo passaggio ha portato a far dimenticare una figura importante che ha presidiato il parto dalla notte dei tempi per millenni. Il progresso, la medicina, il sapere scientifico sono stati elementi positivi chiaramente, ma ci hanno portato via tanto e quindi sentivo la necessità di fare una riflessione su questo perché è vero che oggi abbiamo una mortalità materna e natale che sfiora lo zero, abbiamo una sicurezza molto alta, ma ne è uscita ridimensionata l'umanizzazione che c'era dietro un evento come quello della gravidanza e del parto, evento che, voglio ricordare, la medicina stessa riconosce come percorso fisiologico e per questo a volte l’eccessiva medicalizzazione è un danno. Se avessi un incarico istituzionale cosa cambieresti? Negli ultimi anni la richiesta di “umanizzare” il momento della nascita si è fatta sentire a partire dall’esempio delle vecchie levatrici, la loro pazienza e sapienza veniva messa a disposizione di ogni donna sulla base di un principio fondamentale: riconoscere l'individualità della persona e i bisogni particolari di ognuna che non sono solo quelli prettamente sanitari. Questo bagaglio antico stiamo cercando di recuperarlo. Bisogna investire in personale, in formazione, in figure dedicate. Non credo che sia sufficiente decorare le pareti di un dato colore o mettere una poltrona più comoda: dobbiamo interrogarci sul significato di umanizzazione. Nessuno ha nostalgia di quei tempi terribili per le condizioni di salute delle donne, però sembra che abbiamo rinunciato anche alla sacralità di quel momento, dove attorno c'erano visi amici, persone vicine per circondarti e la prossimità degli affetti. Negli ultimi anni si è cominciato a parlare in modo diffuso di violenza ginecologica e ostetrica. Che cosa ne pensi di questo fenomeno che è stato scoperchiato grazie alle testimonianze di tante donne che hanno deciso di condividere il proprio vissuto? La violenza ostetrica è un grosso problema. Le situazioni possono essere diverse: una visita ginecologica ostetrica inopportuna perché ripetuta oppure pensiamo anche ai reparti universitari dove ci sono tanti studenti che devono imparare e che si esercitano con le pazienti. La violenza ginecologica e ostetrica può essere un'appropriazione del corpo e dei processi riproduttivi della donna da parte dei professionisti sanitari, si può esprimere con trattamenti di abuso di medicalizzazione oppure di patologizzazione dei processi naturali o con una perdita di autonomia e della capacità di decidere liberamente del proprio corpo, della propria sessualità. L'impatto negativo di questi interventi si ripercuote poi nella vita della donna anche dopo questo evento traumatico, quindi è un fenomeno a cui bisogna fare attenzione e analizzare con tutto il suo portato. Aggiungerei una cosa. Ascolto. La cultura delle levatrici era atavica ma qualcosa ci sarà stato di buono se anche Socrate per sviluppare il suo metodo filosofico si affidò alla madre Fenarete che era una levatrice empirica. Quello tra Mallena, empirismo, e Angelica, scienza, lo definirebbe un dualismo? Angelica e Mallena sono due persone diverse ma che condividono molto. Malena è una donna adulta con figli, analfabeta, e presta il suo aiuto alle altre, è un punto di riferimento per tutta la sfera della salute femminile, per tutta la comunità. Angelica invece è una ragazza giovane, ha 25 anni, ha fatto studi universitari e viene da un contesto socio-culturale molto diverso. Entrambe, però, hanno delle idee, per quel periodo e per quel contesto geografico, rivoluzionarie perché si staccano dalla cultura patriarcale e si oppongono ad essa attraverso scelte coraggiose e controcorrente. Sono donne consapevoli e vulnerabili: con il loro agire mettono in evidenza l'avidità e l'ipocrisia del mondo che le circonda, soprattutto il mondo delle istituzioni sia nazionali sia locali che impongono delle leggi inapplicabili e a cui si ribellano. Il paese sardo dove vivi e Norolani, il villaggio che è nato dalla tua penna e in cui è ambientata la storia, sono sovrapponibili? Beh, pensando a quel periodo sicuramente sì, come tante altre zone rurali non solo della Sardegna ma di tutta Italia. Le levatrici si ritrovano ovunque: anche in molte altre regioni del Sud Italia e nel Nord. Le ritroviamo nel Veneto, nel Salento, in Basilicata, in Sicilia: ne parlò anche Pirandello con Donna Mimma. Questo paesello che ho inventato è un mix di tante piccole realtà, in cui la medicina ufficiale, quella scientifica, si affacciava sul territorio. Sullo sfondo del racconto la Prima guerra mondiale che ci riporta a un presente di conflitti. Come hai lavorato su questo tema così attuale? Non c'era bisogno di un'ostetrica che parlasse della Grande guerra, quindi l'ho fatta arrivare attraverso piccole cose, attraverso la gamba amputata del marito della protagonista, l'ho fatta arrivare attraverso i suoi incubi, attraverso tutto quel portato che arrivava dalle montagne della trincea e le testimonianze riflesse di quei giovani del tempo che - voglio ricordare - non sapevano dove stavano andando, non sapevano contro chi dovevano combattere, non sapevano perché dovevano combattere e uccidere altri giovani. Emergono le incongruenze e i paradossi delle guerre in questo libro. E poi c’è la parte sensoriale: perché la guerra esplode in casa attraverso gli odori, i suoni, il dolore. Che rapporto hai col sardo? Io sono bilingue perché il sardo lo parlo da sempre, anche se lo so scrivere un po' meno. Sentivo il dovere di trovare un equilibrio tra fedeltà alla lingua sarda e necessità narrativa di portarla comunque dentro il romanzo. Ho dovuto mediare perché la lingua sarda è complessa per chi non è sardo ma per far vivere quell’epoca non si poteva prescindere. Ho inserito parole in lingua sarda per rendere le parti dialogate più vivaci e autentiche, anche se le ho riadattate, facendone un uso ponderato anche sintatticamente, con l’obiettivo di avere il favore del lettore contemporaneo. Spero non me ne vorranno i cultori della lingua sarda, però volevo davvero fare un'operazione di incontro. Ecco come tutto il libro, la chiave è stata “venire incontro”, perché non abbiamo bisogno di scontri, abbiamo bisogno di incontrarci: tra culture, tra lingue diverse, tra persone che hanno idee diverse, tra antico e moderno. Una curiosità. Non ho trovato da nessuna parte, non so se è per un tuo desiderio, il tuo anno di nascita. Che rapporto hai con la tua età? Diciamo che avendo lavorato per più di 40 anni ed essendo ora in pensione è ovvio che io ne abbia più di 60 e quindi si capisce. Non lo so neanche io perché non lo dico ma credo sia perché è una cosa che non ritengo importante, come non ritengo importante neanche dire da dove vengo nello specifico, se ho due mariti, se ho quattro figli e e via dicendo. Per scrivere ho aspettato il momento giusto. Se fosse capitato quando scrissi la tesi di laurea con 18 anni in meno e quindi sicuramente con più energie fisiche e forse anche mentali forse non avrei avuto la consapevolezza di oggi. Sono contenta che questo libro stia avendo successo perché se penso a tutte quelle donne che si sono sacrificate gratuitamente per secoli e secoli senza remunerazione e tutele mi ribolle il sangue. Un uomo non lo avrebbe mai fatto.

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Bibbiana Cau: “Sono un’ostetrica che ha studiato per diventare scrittrice”