Maria Rita Masci: “Ho portato la Cina in Italia traducendo libri”

“Quando mi chiedono di tenere un corso, dico sempre che preferirei di no perché io cambio idea su molte scelte di traduzione a ogni libro che traduco”. A dirlo per spiegare la complessità del passaggio da una lingua fatta di caratteri a una alfabetica è Maria Rita Masci, la studiosa e traduttrice - o meglio scout letteraria, come preferisce chiamarsi lei - che ha portato buona parte della letteratura contemporanea del “Paese di mezzo” nelle nostre librerie. Laureata in cinese presso l'università La Sapienza di Roma nel 1980, ha studiato a Shenyang e Nanchino. Nel 1976, anno in cui Masci arriva in Cina, muore il dittatore Mao, leader della Lunga Marcia e fondatore della Repubblica popolare nel 1949. Si chiude un’era e se ne apre una nuova. ”Sono arrivata in Cina in un'epoca molto particolare: c'era ancora la Rivoluzione culturale, il movimento di radicalizzazione del processo rivoluzionario - anche se era agli sgoccioli - e fu proprio questo ad attrarmi. Non ero mossa tanto da valutazioni sull'antica cultura cinese o sulle sue filosofie e tradizioni letterarie, ma era un desiderio di capire la politica. Mi sono quasi subito resa conto che di quello che mi aveva spinto ad andare - l’utopia che veniva elogiata da noi in Occidente da una certa parte politica - c'era ben poco di reale. Dunque mi sono trovata davanti a una società che ho dovuto imparare a conoscere. Tutto quello che avevo studiato non bastava e quel soggiorno non fu un completamento degli studi ma in un certo senso un primo approccio alla Cina reale”, racconta a Skytg24 Insider. Dalla politica alla letteratura: come è arrivata alla traduzione letteraria? Scoprii che la letteratura era un canale che mi avrebbe aiutato a capire e mi avrebbe permesso di trovare una chiave di lettura della società. Quelli erano anni decisivi a livello politico, storico ma anche letterario. Possiamo dire che in quella fase nacque la letteratura cinese contemporanea, perché alla morte di Mao ci furono grandi rivolgimenti, accadde di tutto. Morto il leader che tutti pensavano immortale, vennero arrestati i politici della Banda dei Quattro, ci furono grandi manifestazioni e piano piano il corso della storia cinese è cambiato. Ritornò poi Deng Xiaoping e iniziò la politica delle riforme. Questo clima aprì a una rinascita, anche letteraria. Come orientarci nelle varie categorie e periodizzazioni che vengono spesso citate, si parla di scrittori post-Mao, di avanguardia, di nuove generazioni? In realtà le etichette, come sempre, sono dettate dai critici, uno scrittore non direbbe mai di appartenere ad una categoria o a un'altra, però va detto che negli anni ‘80 ci fu appuntola demaoizzazione e questo giocò un ruolo. Gli scrittori fino a quel momento avevano dovuto adeguarsi al credo del realismo socialista e quindi nei loro testi dovevano essere in qualche modo portatori dell’ideale società comunista. Questo imponeva di dover essere sempre positivi e i loro personaggi dovevano essere tali. Il negativo era ammesso a patto che poi vincesse il bene. Tutto questo viene messo in crisi dopo lo spartiacque del 1976, anzi totalmente in crisi. Ma dobbiamo considerare che in Cina si procede a fisarmonica, ci sono stati sempre dei periodi di apertura-chiusura e ancora chiusura-apertura. Questa apertura cosa generò? In un primo momento di apertura ci fu una fioritura enorme di produzione letteraria che si divise ben presto in svariate tendenze, perché all'inizio il rifiuto del realismo socialista portò innanzitutto a un desiderio di ritorno al reale, e quindi al realismo a livello letterario. Ecco, un realismo che riuscisse a colmare il divario che si era aperto fra la vita e la letteratura. In un secondo momento però si affacciano sulla scena letteraria altri scrittori, un'altra generazione, quelli che appartenevano alla gioventù delle Guardie Rosse, che erano state nella fase più alta della Rivoluzione culturale scatenate per portare avanti quelle politiche radicali, poi però inviati in campagna per farsi rieducare dalle masse e dunque lì dimenticati per una decina di anni. Questa generazione di portabandiera subì naturalmente una grande crisi, un rifiuto anche dell'ideologia che avevano vissuto sulla loro pelle. Tornati alla ribalta, portarono avanti una rivoluzione narrativa. Lo scrittore smette di essere un portabandiera, detentore di verità generali, ma scrive in base alla sua visione e la narrativa diventa il sintomo di una condizione esistenziale, personale e soggettiva, quindi una ricerca esclusivamente individuale. Ed è per questo che dalla metà degli anni ‘80 si sviluppano svariate correnti in relazione alle tensioni, alla curiosità, alle necessità dei singoli scrittori che più o meno si possono riconoscere in certe tendenze di massima: la ricerca delle radici oppure l'avanguardia, che arriva un po' più tardi e si propone di ragionare anche sul mezzo linguistico, poi c'è il modernismo e molte altre. Si è parlato molto negli ultimi anni, soprattutto in prossimità dell’assegnazione annuale del Premio Nobel per la letteratura, di Can Xue. Ha appena tradotto per la casa editrice Utopia “La città del fumo”, una raccolta di racconti affascinante e al tempo stesso inquietante. Ci aiuti a contestualizzarla. Devo intanto precisare che è un po' una mosca bianca nel panorama della letteratura cinese contemporanea, una veterana, perché inizia a scrivere nella prima metà degli anni ‘80, nella fase già citata di fioritura letteraria, e si colloca nell'ambito della tendenza che è quella del modernismo. Ma Can Xue è molto particolare perché nei suoi racconti ogni elemento di realtà - e torniamo appunto a questo rapporto con la realtà così complesso e contraddittorio degli scrittori di quel tempo - viene trasfigurato in immagini fantastiche attraverso le quali l'autrice ricompone un altro mondo che è caratterizzato da incertezza e impalpabilità, come nei sogni. Sogni che si trasformano quasi sempre in incubi. I suoi libri pullulano di figure assolutamente impressionanti, creature allucinate, chiuse in capanne abbandonate o segregate in case buie, in luoghi senza tempo. Una delle immagini che ho in testa è quella di un uomo a cui germoglia una pianta di bambù nel petto. Il tutto è disturbante ma anche incredibile, evocativo, le figure tendono a creare un mondo illusorio, un mondo in cui le persone si trasformano in animali, in alberi, perdono consistenza, da benevole diventano malevole e seguono varie mutazioni. Come interpretare questa valanga di immagini che si ritrova nella letteratura di Can Xue? Lei sostiene che per raccontare la realtà non serva la ragione perché navighiamo nell'illusione e di tutto ciò si può parlare solo attraverso dei simboli. Per questo ha bisogno di unlinguaggio che sia consono e dunque irrazionale e illogico. Quello che è importante però sottolineare è che il malessere che dà origine a questi racconti è un malessere appunto reale. Lei è una di queste scrittrici che forse nel modo più estremo ha raccontato i traumi di quegli anni, il trauma che hanno subito per una decina d'anni tutti i cittadini della Cina. Lo scrittore è colui che per definizione se ne fa interprete, non più quello che dà le spiegazioni ma comunque che coagula tutto questo sentire e lo restituisce nel modo che sente più vicino. Questo modernismo non è un modernismo che deriva da quello occidentale ma corrisponde a un clima autoctono, è un'espressione di un dolore e di un trauma profondamente cinese. Can Xue ha scoperto dopo aver scritto il primo libro il modernismo occidentale, infatti, e se ne innamorò, al punto da scrivere anche un testo su Kafka ma anche uno su Calvino: è una scrittrice letterata. Cosa le piace di questa autrice? La cosa che a me piace molto è appunto il fatto che sia assolutamente spiazzante, bisogna lasciarsi un po' andare a questa valanga di immagini e di frasi costruite una per una. Per me non è solo una trasfigurazione della realtà, la sua. Il fatto è che questo accostamento di immagini poi crea un'esperienza emotiva, è un'associazione di immagini che si compone attorno a un tema che spesso coincide con elazioni personali, i rapporti familiari, l'amore rimpianto dall'infanzia o l'imperscrutabilità del mondo, l'essere in balia di un grande mistero. I suoi libri diventano una sorta di percorso iniziatico al termine del quale si rimane colpiti e travolti da un’emozione, una sensazione che non è tanto raccontata ma evocata. Io penso che la sua forza sia questa. Il Nobel però nel 2024 è stato assegnato a una scrittrice sudcoreana, Han Kang. Da diversi anni lei è in lizza, fra quelli più papabili, insomma, ma penso che avendo assegnato il Premio a Han Kang per un po' non ci si penserà più agli scrittori cinesi, perché una donna, una scrittrice estremorientale, già c'è stata. Ma le strade del Nobel sono imperscrutabili. E a proposito di questo, l’ultimo Nobel assegnato a uno scrittore cinese è quello del 2012. Parliamo di Mo Yan, uno scrittore che lei ha tradotto proprio come Can Xue. Ho avuto questo ruolo di “ambasciatrice” della letteratura cinese in un momento in cui non c'era assolutamente niente. Io ero mossa dalla curiosità di capire questi scrittori e sono stata contagiata da una specie di euforia se vogliamo chiamarla così. Leggevo queste opere e le trovavo straordinarie, così le proponevo agli editori italiani. L’incontro con la casa editrice Theoria in quella fase fu molto importante. Pubblicarono “L'oceano in un guscio d'ostrica - Viaggiatori cinesi nell'Europa dell'800” che era il risultato della mia tesi di dottorato. E mi chiesero: hai altro? Quindi gli autori che ha tradotto sono quasi tutti frutto di proposte sue? Tutto mio. Io sono traduttrice, nel senso che traduco ma mi sento prima di tutto una scout della letteratura cinese contemporanea. Nessuno mi ha mai chiesto di fare una traduzione, sono sempre stata io a creare le condizioni per farla. Con Theoria abbiamo pubblicato moltissimi autori. Incominciammo con ”Il re degli scacchi” di Acheng, un grandissimo. Ebbe un tale successo che convinse la casa editrice ad insistere con la letteratura cinese e quindi abbiamo pubblicato “Il Re dei bambini”, “Il Re degli alberi” e poi altri suoi testi. Lui curò addirittura un'antologia di scrittori cinesi contemporanei, anche quella pubblicata da loro. Poi continuammo con altri scrittori: Su Tong e ancora Han Shaogong, Liu Sola… Fecero un ottimo lavoro. Poi Theoria ha avuto un suo decorso nel ‘95, è cambiata un po' la situazione e una parte dei redattori di Theoria passò a Einaudi e anche io. Dunque da allora sono consulente per la letteratura cinese contemporanea, ho continuato a fare questo lavoro, portando alcuni contratti che erano già stati firmati con la precedente casa editrice e trovando altri autori, altri libri. Insomma vado avanti così da molti anni. Possiamo dire che ha riempito un vuoto. Sì, perché di vuoto si trattava. E ci sono anche delle motivazioni politiche. Nel momento in cui muore Mao e viene arrestata la Banda dei Quattro, la sinistra occidentale, che aveva visto nel maoismo un'utopia alternativa all'Unione sovietica, si disinteressa completamente della Cina: il mito era crollato. Quindi c'è un vuoto, ed è in questo vuoto che la letteratura ha ancora una volta operato una funzione che non le dovrebbe essere propria ma che di fatto è stata: narrare gli anni del trauma, gli anni della Rivoluzione culturale e come su questo si era riflettuto sulla funzione della letteratura, dell'artista. E immagino che siano ancora tantissimi gli autori che non ha ancora portato in Italia e che vorrebbe portare. Gli autori inediti in Italia che vorrei pubblicare non sono tanto giovani, perché i giovani che vedo adesso nel panorama contemporaneo mi lasciano perplessa. Alcuni romanzi sono molto divertenti, perché ad esempio ci sono delle commedie e il fattore dell'ironia mi interessa molto in quanto nasconde sempre cose interessanti. Però vedo anche una certa omologazione: racconti tranquilli, che non hanno la forza che avevano quelli degli anni Ottanta, la forza di creare “un’esplosione” in qualche modo. Da cosa dipende? È un altro periodo della storia cinese rispetto al post-Mao, è un periodo in cui c'è Xi Jinping, in cui dunque c'è un controllo maggiore dall'alto, ci sono più limitazioni, c'è più censura e dunque quello che vedo è un affermarsi di una letteratura un po' di maniera. Credo che l'unica novità della quale però io non mi occupo, ma di cui si sono occupati validamente molti altri traduttori, è la fantascienza, perché quella in qualche modo è rappresentativa di un'epoca moderna attuale, cioè l'epoca dell'intelligenza artificiale, l'epoca delle tecnologie e soprattutto la fantascienza parla della realtà mettendosi in un futuro improbabile. Quindi non è nemmeno attaccabile da un punto di vista politico, è tutto fatto di richiami indiretti e irreali. Aiuta anche a sviluppare la fantasia e poi è un genere letterario che forse in Cina non è più nemmeno tanto genere, almeno per una certa fase è stato quasi mainstream per via dell'enorme investimento cinese che c'è stato su questa narrativa, con i convegni, le organizzazioni, le riviste, i premi. Un genere che mette anche in contatto la Cina con una comunità internazionale di scrittori e lettori di fantascienza. Tutte le lingue sono difficili da tradurre, però chiaramente passare dal carattere all'alfabeto pone delle difficoltà ulteriori. Ci racconti il processo di traduzione. Quando lo si penetra non è difficile, però è vero che è il più grande tradimento perché portiamo una lingua scritta con i caratteri a una lingua alfabetica come l’italiano. In linea di massima ci sono due tipi di difficoltà. La prima per quanto mi riguarda è che la lingua cinese è abbastanza paratattica, fatta da frasi brevi, messe quasi tutte una dopo l'altra sullo stesso piano, mentre da noi non sarebbe possibile, quindi bisogna creare le subordinate. Per me questo è il vero salto, provo una specie di vertigine perché bisogna colmare dei vuoti, quindi bisogna trasformare una frase che andrebbe bene come flash in qualcosa di coordinato. E poi ci sono le difficoltà dettate dal contesto culturale, volta per volta si affrontano i problemi. Ci faccia l’esempio di un problema. I nomi cinesi danno una serie di indicazioni immediate, se è donna, se è uomo, in che periodo della storia è stato scelto questo nome, se è un augurio, l'ordine di nascita nella famiglia e ora tutto questo in traduzione ovviamente si perde. Agli inizi della sinologia i nomi si traducevano, ma per me è assolutamente impossibile, non accetto tutto ciò, però il nome magari spesso è accompagnato da un soprannome, allora io lascio il nome così com'è e poi traduco il soprannome. Poi ci sono anche i termini di cortesia perché di fronte al cognome si può appunto apporre “giovane” e ”vecchio” per definire le relazioni di età e di rispetto. Io non sono sempre stata ferma su una posizione o una sola interpretazione, ho passato svariate fasi: metterlo, non metterlo, metterlo tradotto, finché alla fine ho deciso di non metterlo più perché è il testo in realtà a rivelare le relazioni che ci sono di anzianità. Questo ci fa capire quanto sia dialettico e pieno di insidie il processo di traduzione. Lo è ma è proprio per questo estremamente divertente. Anche se per lo stesso motivo preferisco non fare lezioni agli studenti di traduzione. La domanda che facciamo a tutti i traduttori protagonisti della serie. Qual è la sua parola preferita in cinese? Spesso ci rispondono scegliendo una parola intraducibile. Forse potrei dire “mangiare”. E perché le piace? Perché in molti periodi e soprattutto nel il periodo diciamo nel quale io mi sono avvicinata alla Cina, chiedere a una persona se aveva mangiato o no era un modo per salutarsi, perché il cibo era una questione di sopravvivenza e non semplicemente di cortesia. Lo si utilizzava al posto del “come stai?” Invece di dire come stai si chiedeva: hai mangiato? È un'espressione molto connotata politicamente in un certo periodo della storia cinese e ci sono affezionata.

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Maria Rita Masci: “Ho portato la Cina in Italia traducendo libri”