Il veleno del giudizio definitivo

Giovanni aveva quattordici anni allora. Adesso di anni ne conta quarantasei. È ancora la stessa persona. Qualche logica variante ma l’impianto è conservato. Come accade per tutti noi. Nel frattempo, vi sono stati degli apprendimenti. Anche in questo caso, come accade per tutti noi. Giovanni, che è ancora lui, vede le cose in modo diverso, ma non è merito della terapia -di cui a volte sopravvalutiamo l’impatto-, la leva del cambiamento di prospettiva in genere è la vita stessa. Per fortuna. Certo, possiamo dare una spintarella al processo, ma siamo pagati per questo, non è il caso di esultare. È così da sempre, anche quando la psicoterapia non esisteva. C’era la vita a fare da scalpello. Gli eventi sono semi piantati in profondità, ognuno si sviluppa coi suoi tempi, ma si sviluppa, e procura modificazioni che, mischiate agli elementi di costanza che ci rendono riconoscibili, generano visioni e scenari carichi di novità. Per questo la stanza dei figli bisognerebbe frequentarla sempre, senza mai stancarsi, anche quando loro ne sono usciti, ci aiuterebbe a essere meno rapidi nei giudizi, spesso formulati dopo i primi collaudi sociali dei ragazzi, momenti nei quali si potrebbe avere l’impressione di trovarsi di fronte a degli alieni che non diventeranno mai più umani. Giovanni, quello di adesso, è un imprenditore apprezzato, lavora in un campo che richiede forte sensibilità ambientale. Una persona per bene, i suoi dipendenti lo stimano. Li paga in modo onesto e li rispetta, per lui questo è un punto d’onore. Quella mattina il discorso incrocia l’Olocausto. Ci arriviamo per vie traverse, stavamo parlando d’altro, ma un aggancio casuale lo condude su una strada inattesa. “Il libro che mi è piaciuto di più tra quelli che ho letto sullo sterminio degli ebrei, parlava dei prigionieri che tornavano a casa, appena liberati dai campi. Ma non ricordo il titolo”. “Credo di capire di cosa parli, è La Tregua, di Primo Levi”. “Ecco, si, quello. Ti devo dire una cosa di cui mi vergogno. Lo avevo preso in prestito in biblioteca, ma non l’ho mai restituito, l’ho rubato. Non saprei perché l’ho fatto, volevo fosse mio, forse il pensiero di trafugare qualcosa mi faceva sentire coraggioso, grande”. Non usciamo dall’argomento per tutto l’incontro. Mi viene da pensare che il senso di colpa derivato da quella marachella, ancora vivissimo, abbia a che fare con la sua attuale generosità, con la sua profonda correttezza. “Ti sarà capitato di avere voglia di restituirlo” “Sempre, ma non c’è la faccio, e poi sono passati troppi anni, dovrei anche capire dove l’ho conservato e cosa dire per giustificarmi”. “Una scusa la trovi, se ci tieni a compiere questo gesto”. Ci pensa, è affascinato dall’idea di tornare al suo paese e rendere quel libro. Poi alza gli occhi e si illumina di un sorriso. “Domenico, racconterò la verità, del resto che senso avrebbe restituirlo se non dimostrassi a me stesso che posso sopportare il peso delle mie responsabilità”. La stanza di questo figlio è sempre la stessa, bisognava avere solo la pazienza di tornarci e capire come si è evoluto il suo mondo. Dovrebbe accadere sempre, bisogna abbandonare il demone del giudizio definitivo, evitare condanne con dei “fine pena mai”. Racconto l’episodio a Elena, una splendida donna di 55 anni, madre di due figli allevati con grande cura, due bravi ragazzi. Quarant’anni prima era stata ospite per lunghi mesi di una comunità di recupero per tossicodipendenti, consumava eroina in modo costante, era figlia di quella generazione che ebbe più caduti di una guerra ragionale. L’intera gioventù, almeno fino ai trent’anni, si era consumata nella dipendenza, cui si aggiungevano importanti disturbi alimentari. I genitori erano persone affermate e tendenzialmente buone, ma con la testa orientata in mille faccende. Mi fa leggere due lettere, una del padre, una della madre. Gliele avevano consegnate a mano quando si trovava in comunità. Piccoli trattati di antropologia, una foto della distanza che talvolta ci separa dai figli. Distanza involontaria ma urticante, è difficile capire le ragioni di certi malesseri autodistruttivi. Oggi Giovanni ed Elena sono al capitolo ventesimo del romanzo, il loro bisogno più grande, essere considerati, è lo stesso di allora, ma la vita si è impegnata a indicare strade per soddisfarli in modi non lesivi. A volta basta aspettare. Eppure, quando eravamo ancora al secondo capitolo, in adolescenza, il destino sembrava segnato. Quella stanza aveva il sentore di un luogo senza redenzione. In realtà non è mai così, ciascuno di noi possiede una naturale capacità di autoripararsi. Se evitiamo i giudizi definitivi, se la assecondiamo con l’educazione e la pazienza, quella capacità si dispiegherà con maggiore efficacia. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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