Caro diario: l’archivio che custodisce i racconti di vita degli italiani

“Avete un diario nel cassetto? Non lasciate che vada in pasto ai topi del Duemila. Garantito contro usi impropri, con diritto a partecipare ogni anno a un premio di 2 milioni e al concorso per la pubblicazione, la memoria personale o l’epistolario familiare che sarà consegnato all’Archivio di Pieve Santo Stefano passerà alla storia”. Con questo annuncio inizia la storia dell’Archivio Diaristico Nazionale nel 1984. In poche settimane dalla pubblicazione arrivarono centinaia di testi e lettere: oggi, a più di quarant’anni di distanza, sono più di diecimila. Il suo fondatore, Saverio Tutino, ex comandante partigiano, giornalista per Repubblica e l’Unità e scrittore, lo chiamava “il vivaio”: perché gli archivi fanno rivivere le scritture del passato, come i germogli che spuntano in ogni stagione. Un archivio che ha fatto rivivere anche una cittadina, Pieve Santo Stefano, un borgo di 3.000 abitanti distrutto nel 1944 dalle mine dei tedeschi in fuga. Con la nascita dell’Archivio, Pieve è infatti diventata la “Città del diario”, come annuncia il cartello giallo che accoglie chi arriva in paese. Oggi l’Archivio diaristico è un’associazione no-profit impegnata nelle attività di conservazione, valorizzazione, divulgazione del patrimonio diaristico sostenute da numerosi donatori, pubblici e privati. Tra queste attività, dal 2013 si è aggiunta l’apertura del Piccolo museo del diario, un’esperienza immersiva alla scoperta di alcune delle testimonianze più significative. Molte delle altre, più di 10.000 sono consultabili online grazie al catalogo digitale, grazie al quale è possibile ricavare dati per conoscere meglio chi sono le persone che hanno affidato il racconto delle loro vite a questo archivio. Oltre 10mila testi da tutta Italia “La passione di Saverio Tutino per il diario nasce in famiglia. Noi custodiamo il diario della madre e sappiamo che anche il padre e lo zio scrivevano. L’idea che la scrittura fosse lo specchio della vita viene da loro”, spiega Natalia Cangi, direttrice organizzativa dell’Archivio. Dopo anni passati in America latina come inviato e corrispondente, “la fondazione dell’Archivio è un gesto per lui quasi naturale. Si stabilisce in un luogo sperduto della Toscana, un piccolo paese distrutto dalla guerra. Va dal sindaco e chiede se è possibile avere una stanza. All’inizio la chiama banca della memoria: un luogo dove le persone potessero inviare tracce della propria vita. Diceva che avvertiva nell’aria un bisogno diffuso di autenticarsi attraverso la scrittura”, ricorda Cangi. Ma nessuna istituzione pubblica, in quel periodo, era disposta a farsi carico di quel bisogno. “Siamo a metà degli anni Ottanta: il clima culturale e accademico – storico, antropologico, sociologico – era pronto, ma lui lo conosceva poco, era appena rientrato dai suoi viaggi. All’inizio non va tutto liscio: veniva ancora percepito come “il giornalista”, c’erano molte perplessità. Poi, pian piano, i vari mondi si sono incontrati”, precisa Cangi. Oggi l’Archivio conserva 10.545 testi, di cui 10.191 consultabili online attraverso un catalogo che li classifica per tipologia. Al suo interno si trovano i diari, scritture intime e quotidiane, le memorie, che raccontano episodi storici o personali con l’intento di essere condivisi, le autobiografie, anch’esse pensate per la lettura pubblica ma organizzate in forma cronologica lungo l’intero arco della vita dell’autore o dell’autrice, e infine le lettere. Ogni testo che arriva all’Archivio è molto più di un oggetto: è un frammento di vita che viene affidato con cura. “La nostra sede è sopra l’ufficio postale, e spesso i diari arrivano così: suona il campanello, la postina ci consegna plichi e raccomandate. A volte sono annunciati da una mail o una telefonata, altre volte compaiono senza preavviso”, racconta Cangi. Alcuni testi vengono consegnati di persona, da parte dell’autore o dell’autrice, di un parente, o anche di uno sconosciuto che li ha ritrovati per caso: in una libreria dell’usato, accanto a una discarica, in un cassetto dimenticato. Chi decide di donare può imporre un vincolo di accesso e poi revocarlo con il tempo: la volontà dell’autore o dell’autrice dello scritto resta sovrana. La consegna è spesso un momento carico di emozione, “un piccolo rito, che avviene sempre nelle mani di qualcuno dell’Archivio”, all’interno del quale lavorano sette persone. “Dietro c’è sempre un bisogno profondo di fiducia, perché donare un diario significa, in fondo, consegnare la propria vita”, spiega Natalia Cangi. È per questo che “per noi è fondamentale ascoltare”, non solo leggere: un principio trasmesso da Tutino, secondo cui “le storie non vanno semplicemente lette, vanno ascoltate”. Gli arrivi scandiscono la quotidianità del lavoro e sono spesso molto diversi e sorprendenti. C’è chi invia testi battuti al computer, chi spedisce scatole piene di lettere senza alcuna istruzione, lasciando a chi riceve il compito di riordinare i frammenti di un’esistenza. “Leggere certi testi ha un impatto profondo: emergono storie che sono veri gridi d’allarme, come quelle di donne che hanno subito violenza e che, solo anni dopo, trovano nella scrittura il modo per raccontarlo. Migrazioni, guerre, dolori privati sono i grandi temi ricorrono”, precisa la direttrice dell’Archivio. "Il museo è nato dentro la fondazione, come parte di un sistema che noi chiamiamo MAB: museo, archivio, biblioteca. Non è stato un progetto pensato da Tutino, che era ossessionato dal diario e voleva semplicemente salvare il salvabile. Ma col tempo ci siamo resi conto che le persone che venivano a Pieve si aspettavano di vedere i diari, e questo comportava dei rischi”, spiega Cangi, riferendosi alla conservazione dei testi più antichi o scritti su supporti più fragili. Così, nel 2011, grazie a un bando della Fondazione Telecom Italia, è stato possibile creare un museo diverso dal solito: non un contenitore statico, ma un luogo dove si potesse “ascoltare” l’Archivio. Il risultato è un luogo immersivo, dove la tecnologia è presente ma discreta. “Nel 2024 abbiamo toccato 10.428 presenze, con un aumento di circa 3mila visitatori rispetto all’anno precedente. Le guide, cinque in tutto, non sono un servizio, ma parte integrante dell’esperienza”, riassume Cangi, che sottolinea anche che ’Archivio, nato per salvare il Novecento, guarda avanti. La sua forza sta nell’assenza di un filtro tematico o cronologico: una differenza sostanziale rispetto ad altri archivi italiani, spesso legati a un ambito accademico o specialistico, che ha portato l’esperienza di Pieve Santo Stefano a diventare un punto di riferimento non solo in Europa, dove è stato fonte di ispirazione per iniziative analoghe in Francia, Germania, Spagna, Portogallo, Olanda, Finlandia, Belgio e Svizzera, ma anche negli Stati Uniti. Secondo Cangi, oggi il rapporto con la scrittura è profondamente cambiato, e anche il tipo di testimonianze che arrivano in archivio lo riflette. “Riceviamo spesso storie molto intime, legate alla solitudine, ai disturbi mentali e alimentari, alle difficoltà relazionali, ai lutti. Sono diari che parlano poco del mondo esterno, ma che nascono da una reale urgenza personale. Forse sono meno affascinanti da un punto di vista narrativo, ma importantissimi: ci raccontano un momento storico difficile, ci chiedono di stare attenti all’urgenza che spinge le persone a scrivere”, conclude.

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