Donne, poesia e politica: i corpi di Shirin Neshat in mostra a Milano

Shirin Neshat è una donna minuta, dallo sguardo intenso. È nata in Iran ma la sua casa è negli Stati Uniti, dove vive - da esule – ormai da decenni. Grazie ai suoi lavori ha conquistato il mondo, è stata premiata più volte, anche a Venezia, e ora è a Milano, al Pac fino all’8 giugno, con una sua personale che suona come un’antologica. L’abbiamo incontrata. Vorrei partire dal titolo della mostra: perché ha scelto di intitolarla “Body of Evidence”? Tanto per cominciare ci sono così tanti corpi in questa stanza, come puoi vedere, la mia fotografia riguarda i ritratti umani e quei corpi diventano una specie di tela per la storia. Le donne di Allah è il corpo della donna come il modo in cui trasmettono la rivoluzione iraniana, nel modo in cui sono armate, nel modo in cui i loro corpi sono cancellati. Il Libro dei Re, gli uomini e le donne durante il movimento verde del 2009, dove hanno combattuto contro il sistema, e alla fine sono stati torturati, uccisi, ecc., questa è la prova di questo particolare periodo di tempo. Quindi, il corpo, poiché uso così tanto del corpo, specialmente il corpo femminile, e quanto sia problematico, è la prova, la prova della storia, perché penso che questa mostra tocchi davvero molto la storia, la Rivoluzione islamica del 1979, il Movimento verde del 2009. Questa sala riguarda l'America sotto Trump. Quindi penso, in un certo senso, di essere un narratore della storia e il mio lavoro è la prova della storia senza nemmeno pensarci veramente, e spero che rimanga nel tempo, ricordando alle persone un particolare periodo della storia. È così che la vedo. Quindi, sono le prove. Guardando le foto in mostra vengono in mente molte domande e si cercano risposte. Cos’è più importante la domanda o la risposta? Ho sempre sentito che il mio lavoro, come artista, deve soltanto sollevare domande, mai fornire risposte e questo per molte ragioni. Prima di tutto io davvero non ho le risposte; io sono curiosa, ero curiosa sulle Donne di Allah, il ruolo delle donne in relazione al fanatismo della Repubblica Islamica dell’Iran. Non avevo alcun interesse a diventare una di loro ma volevo capire. Volevo andare sotto la pelle delle donne e capire, così ho sollevato molte, molte questioni con i video; il fatto che le donne non possono cantare e gli uomini possono farlo. Ho fatto domande su questo. Perché non possono? Che tipo di musica ci aspettiamo da una donna, al punto da non permetterle di cantare? Ho sollevato la questione e lei ha risposto. In questa stanza sollevo questioni sull’America. Che aspetto ha l’America, i nativi americani, gli afroamericani, i bianchi, gli ispanici, gli immigrati lavoratori che hanno dato il sangue per fare l'America. L'America non sembra tutta bianca. Così ho sollevato quella domanda. Penso che questo sia il modo in cui vedo il lavoro di un artista: non dire mai al pubblico chi ha ragione, chi ha torto, chi è buono, chi è cattivo, ma solo attraverso domande e lasciare che decidano da soli. Nei suoi lavori si mixano poesia e politica: è più un rischio o un’opportunità? C’è una forte contraddizione tra poesia e politica ma credo che la poesia esista ovunque, in ogni momento, anche in guerra. La poesia è il riflesso delle emozioni umane. È umana vulnerabilità, umano dolore. La poesia non è graziosa. La poesia potrebbe essere oscura, potrebbe essere inquietante ma riguarda l’umanità. La politica è controllo, si tratta di un programma, è il male. Per me la politica è qualcosa che è governato da poche persone al mondo ma penso che la poesia riguardi l'umanità. Quindi, non riesco nemmeno a immaginare di affrontare un argomento politico senza interporre la poesia, perché noi siamo le conseguenze della politica. Tutte queste facce, tutte queste meravigliose facce che ti guardano; è così poetico guardarli, perché c’è così tanta umanità in loro, così tanta dignità. Potrebbero essere poveri, senzatetto, potrebbero essere poco attraenti ma sono bellissimi. Per me questa è poesia. Quando trovi la bellezza nel più brutto, nel modo più inaspettato ed è quello che cerco. Quale sentimento ritiene possa cogliere una persona, camminando per le strade di Teheran? Non vado in Iran dal 1996. Non so nemmeno cosa significhi lavorare in un Paese in cui sei nato e parli la stessa lingua. Io sono più simile a questo, sono come loro. Io sono davvero una straniera in Iran. Forse sono tanto italiana quanto iraniana, perché non sono stata in Iran dal 1996, quindi, non so cosa significhi camminare per strada, ma so cosa significhi camminare per strada a New York, dove sono circondata da ispanici nel mio quartiere. Sono una minoranza. Non mi trovo mai, mai, in un posto in cui parlo la stessa lingua di tutti gli altri, ho dimenticato quella sensazione, mi dispiace e va bene così. Questi volti definiscono dove vivo, quello è il mio passato, quelli sono il mio passato. Le manca il “vecchio” Iran? Ho mia madre in Iran, ho le mie sorelle, ho una famiglia. Certamente mi mancano, ma penso che debba capire che per le persone che vivono lontane dal proprio Paese per così tanti anni, c’è un livello di esaurimento che diventi insensibile all’idea dell’impulso di tornare indietro, all’urgenza della riunificazione. È così estremamente doloroso che semplicemente allontani quel dolore. Non ci pensi più. È davvero difficile da spiegare. Conosco molte persone in Iran che sono arrivate al punto in cui non si permettono più di provare questo sentimento. Ieri sera ero con due parenti appena venuti a trovarmi dall'Iran e mi stavano raccontando le loro vite. Io ho detto: "Non voglio sentirle, perché non ho accesso a queste informazioni". Quindi, finisci per bloccare quella sensazione di nostalgia, di nostalgia di casa, e accetti il fatto che non la proverai mai. Credo sia una storia triste ma è reale. Persone che vengono esiliate con la forza, non per scelta. Vive da decenni negli Stati Uniti, cosa pensa di questa America che cambia e del nuovo volto di Donald Trump? Apri un vaso di Pandora. Penso che stiamo vivendo in un periodo estremamente pericoloso, mentre parliamo. Penso che il livello di fascismo che sta invadendo il Paese e il cambiamento ideologico che sta avvenendo in noi non abbia precedenti. Sono in questo Paese da così tanto tempo, non sono mai stata così preoccupata e considero gli Stati Uniti un luogo di democrazia. Un luogo che mi ha dato una casa ma un luogo che è costruito con il sangue degli immigrati che abbiamo contribuito a questo paese, eppure ora siamo alle strette. Penso che sia una retorica estremamente pericolosa questa idea di spingere per la supremazia bianca e l'alienazione di coloro che sono immigrati, che non sono nativi. Non solo, il modo in cui Trump e la sua amministrazione si occupano della gente del posto, dei poveri, dei lavoratori, di come i miliardari stanno prendendo il sopravvento, ci sono infinite, infinite ragioni per preoccuparsi e non ho idea di dove stiamo puntando ma non è un bel posto. Sono molto preoccupata. Ritiene che l’Arte e il ruolo che ricoprono gli artisti possano fare abbastanza per aiutare le donne e le persone in generale? Arte è protesta, è critica della Società. Questi lavori sono una critica, questo è una critica dell’America. Questa è la mia critica agli Stati Uniti che vogliono cambiare. Così, le mie opere sono una testimonianza della mia protesta, della mia critica. Così come critico la Società iraniana, la sua Cultura, il mio ruolo ora, oggi, è vedere dove sta andando l’America. Attraverso i video, i film, le fotografie e il mio ultimo video, che sarà a maggio nella Galleria Lia Rumma, saranno piuttosto politico. Penso che ora il nostro lavoro si può incrementare, specialmente come stranieri, specialmente come donne, come iraniani, come musulmani. Abbiamo necessità di essere molto attenti, non soltanto per difendere noi stessi ma per fare chiarezza su come ci sentiamo riguardo a questi cambiamenti. Quanto è importante, quando si incontra qualcuno, cercare di capire chi è, magari guardandolo negli occhi o guardando le sue mani? Sono lieta di essere in questa stanza, con tutte queste fotografie di volti che ci guardano dalle pareti. Sono persone comuni, che ho trovato per strada, in posti diversi ma tutto il tempo che ho speso con loro, ogni singolo minuto, tutte le storie che mi hanno raccontato, i loro sogni, le loro vite, ebbene, se li guardi bene ci troverai un’umanità infinita. Ognuno di loro è speciale, riguardo alla loro età, alla loro condizione economica, al loro sesso, a quanto sono belli o meno belli. Ognuno è speciale e bellissimo e io guardo le loro facce e mi emoziono, per il semplice fatto che mi abbiano parlato e trascorso un po’ del loro tempo con me, anche se era soltanto un senzatetto che stava soltanto passando da quelle parti. Come immagina il suo Paese d’origine nel futuro? Penso che da ora in poi tutto sarà ancora più lontano. Da ora in avanti i miei personaggi saranno iraniani come me, ma saranno lontani dall'Iran. I miei nuovi progetti si concentrano principalmente sull'esperienza di trovarsi in Iran ma fuori dall'Iran, mai in Iran. È una forma di libertà, accettare questo. A essere sincera mi sento liberata per il fatto che io non desideri andare in Turchia, in Egitto, in Marocco e far credere che sia l’Iran. Io posso essere in Italia e fotografarti ma ancora, io sono iraniana, finché sarò iraniana il lavoro rimarrà iraniano. Beatrice Benedetti, co-curatrice della mostra Qual è stata la sfida da vincere, nella curatela di questa esposizione? È un progetto che ha avuto una lunga gestazione, circa cinque anni, La sfida più importante è stata quella di soddisfare un’artista premiata a Venezia con il Leone d’Oro, il Leone d’Argento per la regia, questa è stata la sfida; ma la sfida nella sfida è stata raggruppare – per la prima volta integralmente – la serie germinale Women of Allah, degli anni ’90, raccolta da collezioni private internazionali, veramente di tutto il mondo, istituzionali, come – ad esempio – il Whitney Museum of American Art, che ci ha prestato proprio Unveiling, la prima foto del 1993, firmata Shirin Neshat. Oppure la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, qui in Italia; quindi, veramente prestatori prestigiosi da Copenaghen, Parigi, Londra, New York, veramente da tutto il mondo. Abbiamo voluto che la serie fosse integralmente presentata in Italia, come cuore, punto nevralgico della mostra, attorno a cui ruotano le tematiche di Shirin. Che cosa ci colpisce di più, di questa artista, nel cuore e nella mente? Ci colpisce come un artista cerchi sempre di trovare delle tematiche universali. In fondo, si parla sempre di noi, dell’umanità, dell’amore, della morte; un dualismo che è stato ricostruito da ogni ciclo in mostra, perché l’artista racconta sempre del sonno, della veglia, del principio femminile e quello maschile. Il principio duale attorno al quale da sempre si regge l’umanità, il destino dell’umanità. Il corpo del reato del titolo è il corpo femminile, un corpo su cui si giocano i destini dell’umanità, che spesso viene associato a una carica di peccato, un peccato originale, dalle ideologie religiose, politiche ma anche a un principio generatore di santità. Una pianta del Paradiso coranico è Tuba, una pianta di un paradiso perduto dall’artista esule, che ha dovuto lasciare forzosamente il proprio Paese; l’artista cerca sempre qualcosa che accomuna l’umanità a tutte le latitudini e in tutti periodi dell’esistenza umana, dall’eternità a oggi. Un’altra tematica importantissima, che abbiamo trattato anche nel catalogo, è quella del sogno. Il sogno rappresenta una tematica dell’esilio ma anche un altrove, dove si può vivere più vicini alle varie età dell’esistenza e anche più liberi. Qual è il percorso della mostra? Come si articola? Abbiamo scelto di presentare, all’inizio del percorso espositivo, la cosiddetta Trilogia della dualità. Tre video incentrati sul principio dualistico maschile e femminile, vita e morte, possibilità per gli uomini di effettuare alcune performance, come quella del canto in pubblico, che sono state inibite alle donne, nel periodo post-rivoluzionario. Il video Turbulent, premiato con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel ’99, è uno dei lavori che apre la mostra, in cui Sussan Deyhim una grande performer iraniana, gorgheggia davanti a una platea vuota; mentre Azar, il compagno dell’artista, canta un poema mistico del XII secolo di Rumi, davanti a una platea di uomini in camicia bianca, simbolo della rivoluzione iraniana. Questa poesia racconta come dovrebbero essere inibiti gli istinti naturali, quindi, l’ideologia e ciò che muove l’uomo, come anche l’attrazione fisica tra un uomo e una donna, diventano un principio dualistico attorno al quale ruota il destino dell’umanità. Alla fine della visita rimangono sospese delle domande. È importante trovare le risposte o è sufficiente farsi delle domande? Questa domanda è fondamentale, perché Shirin Neshat racconta come lei cerchi sempre di far sollevare delle questioni e mai di dare delle risposte. Tanto per fare un esempio, una delle domande retoriche che io mi faccio sempre è: è più sensuale un corpo velato integralmente, con la calligrafia persiana sinuosa, sulle parti scoperte del volto o delle mani oppure un corpo nudo, come nella serie The Fury, che però viene in qualche modo come dolente, doloroso? Perché è un corpo che - nella videoinstallazione omonima The Fury - è quello di una prigioniera politica che subisce degli abusi proprio in carcere e ne esce con una sanità mentale compromessa, proprio da questo grande trauma. La nudità o la copertura, la misteriosità del corpo femminile, che evoca anche la santità di questi veli, sono domande – quindi - cosa è più sensuale, cosa è più erotico, più mistico? Queste domande rimangono irrisolte per volontà dell’artista ma aiutano a cibare la nostra mente e a ragionare in maniera più libera e più aperta.

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