Enrico Rotelli: “Vi racconto com’è tradurre Il grande Gatsby”

Enrico Rotelli non può che essere guardato con una certa ammirazione, se non invidia, da chiunque aspiri a fare il traduttore. Essenzialmente per due motivi. Ha tradotto un unico libro nella sua vita e questo libro non è esattamente uno romanzetto qualsiasi, ma “Il grande Gatsby”. E si è formato con uno dei nomi più importanti del Novecento letterario italiano, ovvero Fernanda Pivano, intellettuale, critica, scrittrice ma prima di tutto traduttrice, che fu la voce di Edgar Lee Masters ed Hemingway in tempi in cui quegli autori non dovevano neanche essere nominati e più tardi fu l’interprete dei cantori della Beat Generation. Sugli anni in cui fece da assistente a Pivano, ha pubblicato un libro “Nanda e io”, edito da La nave di Teseo. Classe 1980, Rotelli fa la spola tra il Veneto, di cui è originario, e San Francisco, dove è immerso nella vita bohémienne di una comunità letteraria particolarmente unita e solidale. Cosa ha capito della traduzione nel periodo in cui fu accanto a Pivano? Sono stato l’assistente di Fernanda Pivano in anni in cui lei non era più traduttrice, perché era in una fase diversa della sua vita. La affiancavo su prefazioni, articoli o interviste, era un tipo di lavoro diverso. Però ovviamente lei mi ha affascinato, mi ha fatto amare questo mondo attraverso le storie che mi raccontava. Mi raccontava quanto fosse difficile fare il lavoro di traduttrice negli anni del regime fascista. Tradusse libri come l’”Antologia di Spoon River” e “Addio alle armi”, quando era proibito. E non c'erano vocabolari, per cui era un modo di lavorare completamente diverso. Il vocabolario inglese-italiano non era consultabile. Lei conosceva l’inglese grazie al nonno. Doveva contare solo sulle proprie conoscenze. Con che tipo di consapevolezza, considerata questa esperienza importante che aveva alle spalle, si è avvicinato alla sua prima traduzione? Ho avuto due grandi dubbi. Il primo è che non avevo mai tradotto nulla prima. E il secondo era che la prima persona a tradurre “Il grande Gatsby” dall’inglese all’italiano in Italia fu proprio Nanda. Per questo era un libro di cui era molto gelosa. Odiava tutti quelli che rifacevano le sue traduzioni, per cui dovevo affrontare uno scoglio emotivo. Poi però parlando con varie persone, con la direttrice editoriale di Bompiani, Beatrice Masini, ma anche con altri, ho capito che non potevo rifiutare. Io amavo molto quel libro, l'avevo già letto tante volte, sia in italiano, ovviamente nella traduzione di Nanda, sia in inglese. Avevo letto varie edizioni perché pochi anni prima erano scaduti i diritti dell’opera, quindi ogni casa editrice desiderava avere una sua edizione, e uscirono quasi tutte insieme moltissime versioni del grande Gatsby. Com’è confrontarsi con un libro che è stato già tradotto così tante volte? Cosa le ha insegnato sulla traduzione? È confrontarsi con il fallimento, soprattutto se si passa dall’inglese all’italiano. È molto difficile trasmettere una stessa musicalità tra queste due lingue. Consideriamo, inoltre, che chi traduce Fitzgerald deve fare i conti con uno scrittore che ha una delle scritture più belle mai esistite, nel mondo occidentale perlomeno, e tutto un universo di riferimenti culturali. Per questo quando ho iniziato a tradurre avevo già accettato il fatto che avrei fallito. Ma attenzione, il fallimento non è che sia necessariamente una cosa negativa. Quando tu sai che non potrai essere perfetto nella traduzione, perché la traduzione di per sé è imperfetta, metti da parte anche un peso che ti farebbe lavorare male. Grazie a questa consapevolezza mi sono sentito libero in senso psicologico, anche se non nel senso linguistico, perché ho cercato allo stesso tempo di essere molto fedele e di non perdermi nella libertà. Sono rimasto concentrato sulla musica della scrittura di Fitzgerald. Restituirla era una priorità. C'è una parola del grande Gatsby che è stato particolarmente difficile tradurre? L’espressione "His gorgeous pink rag of a suit", nella scena in cui lui è sulla scalinata e Nick lo vede. Perché vuol dire tutto, vuol dire niente. Io infatti andai molto di fantasia. Se non sbaglio - sono passati diversi anni - l'ho tradotto come "La meravigliosa chimera rosa del suo completo strappato". Perché rag, che vorrebbe dire straccio, in realtà è molto di più di straccio, ha molti significati. Insomma era molto stratificata e parlai anche con diversi scrittori per venirne a capo. Questo è stato il mio metodo. Ne discussi soprattuto con Colum McCann. Lo incontrai mentre stavo lavorando su questo e mi venne in mente l'idea della chimere, una parola sicuramente trita ma che mi è sembrata quella giusta. Magari qualsiasi altro studioso del grande Gatsby mi dirà che è una cosa inconcepibile. Invece dentro questa parola ci ho visto il significato intero del libro: questa ricerca del sogno, che però è un'illusione. La parola chimera rappresenta tutto questo ed è allo stesso tempo una parola, se non leziosa, abusata. Secondo me era un bel contrasto. In che modo ha lavorato? Aveva sulla scrivania altre versioni? No, le avevo in testa. Forse solo sul finire del lavoro ho fatto qualche confronto. Ma già avevo tradito Fernanda Pivano, accettando quella traduzione, quindi mi sono buttato e ho dimenticato le altre versioni. Lei non ha un percorso classico da traduttore. Questo l’ha mai spaventata? Secondo me c'è bisogno di tutto, soprattutto nelle traduzioni. Nel senso che più traduzioni ci sono, più versioni ci sono di un grande classico, più quel classico rimane vivo. Magari servono anche solo per farti amare di più la prima versione. Farò un esempio stupido: le traduzioni sono come le cover di una canzone. A volte le troviamo atroci e insultanti, a volte ci emozionano anche più dell’originale. Nanda non sarebbe d’accordo con quello che sto dicendo. Su questo ho un aneddoto: ritradussero “Jukebox all’idrogeno” in Italia e lei andò dall'autore Allen Ginsberg a chiedere: “Per caso lo hai riscritto?”. Non capiva il senso di una nuova versione, di una ritraduzione. Forse perché si faceva davvero una gran fatica ai tempi. Non c’era internet e la possibilità di fare verifiche e trovare parole nuove. Quando tradusse “Il vecchio e il mare” passò un sacco di tempo all’acquario di Milano per chiedere che pesce fosse questo e quell’altro. Perché erano nomi mai sentiti prima. Lei credeva che la traduzione doveva essere quella e mai cambiata, credo che in questo fosse un po' di parte. Lei ha raccontato gli Usa anche come saggista e critico. Pensa che il mito dell’America e della letteratura americana sia tramontato? Quando si parla degli Stati Uniti, ora le persone reagiscono con un po' di stizza, ma un conto è essere contro i governi, e un conto è essere contro la cultura delle nazioni. Credo che la cultura degli Stati Uniti continui a essere immensa, a me piace proprio per la sua varietà e vastità. Era varia negli anni di Fernanda Pivano, che ha attraversato un periodo lunghissimo dagli anni Trenta a Obama, e lo è tuttora: è stata l'ispirazione massima per l'Italia e per l'Europa, insomma, per i Paesi più vecchi che quindI facevano fatica a combattere le tradizioni a non soccombere sotto il peso della propria storia, ad andare avanti e fare cose nuove. Questo del passato da cui non riusciamo a liberarci è un tema tuttora enorme in Italia. Negli Usa c’è una diversità tale che sono costretti a trovare delle regole per vivere. Alcune regole sono positive, altre regole sono negative o estreme. L’Italia potrebbe ispirarsi ad alcuni fenomeni, ma con dello spirito critico. Invece mi sembra che importiamo dei concetti in modo provinciale senza provare nemmeno ad adattarli alla nostra realtà. Un esempio è come è stato recepito in Italia il dibattito su woke e anti woke, in modo sterile. Ci sono due autori contemporanei statunitensi che le scaldano il cuore? Maaza Mengisteche, scrittrice di New York di origine etiope, è stata tradotta da noi perché ha scritto un libro sull'occupazione italiana in Etiopia, che si chiama “Il re ombra”. Penso che il suo libro ci aiuti ad affrontare l'argomento poco trattato del razzismo e del colonialismo nella storia d’Italia, argomenti di cui non si è mai parlato o lo si è fatto in modo molto limitato. Come secondo nome direi Yiyun Li che ha scritto tra i vari libri tradotti da noi “Dove le ragioni finiscono” che racconta un dialogo tra una madre e un figlio morto suicida. Un libro che forse ha scritto attingendo alla sua razionalità cinese perché è lì che è cresciuta, prima di andarsene e di scegliere gli Usa come terra di libertà. Due autrici donne e di origini diverse. Torniamo agli Usa della diversità. Sono voci che sono sempre esistite, però adesso hanno spazio e secondo me è importante accogliere queste voci in questo momento. Ha menzionato solo autrici tradotte. Le viene invece in mente un autore che avrebbe voglia di tradurre e portare in Italia? Jonathan Escoffery e il suo "If I survive you". Cosa ha pensato quando ha visto quella classifica del New York Times che ha messo in fila i libri più importanti del XXI secolo con alla testa Elena Ferrante? La prima parola chiave per capire questo successo è hype. Attorno a questo libro c’è stato un enorme esaltazione. Se negli Usa è stato così fortunato, e bisogna considerare che non arrivano molti libri italiani oltreoceano, è perché gli americani coltivano una fantasia per l’Italia, una fascinazione e sono stati rapiti da quel romanticismo neorealista. E poi nessuno ricorda mai che nell’edizione statunitense è stata fatta un’ottima traduzione dall’italiano all’americano. In un certo senso quando ha cominciato ad avere successo negli Usa c’è stata un’onda di ritorno che ha alimentato ulteriormente il successo che già aveva avuto in Italia. Un fenomeno che si spiega sempre per quella famosa influenza che subiamo. C’è stata una combinazione di cose. Se stiamo al contenuto, penso davvero che questo libro racconti l’amicizia femminile in modo magistrale e originale, perché molte autrici non ci avevano neanche provato ad attraversare questa complessità della relazione donna-donna. Cosa le piace di San Francisco? Qui c’è una comunità di scrittori molto uniti, mentre a New York è una competizione continua, o meglio nella Grande Mela a parole sono tutti amici, ma poi le cose stanno diversamente. A San Francisco c’è grande e sincero supporto. Se io presento un libro, vengono, perché sono interessati e non per il networking. Si passa molto tempo insieme, sia con quelli che sono amici, sia con quelli che conosci di meno, ma che diventano parte della tua quotidianità. Pensi che ho seguito le elezioni del 5 novembre con il relativo spoglio con R.O. Kwon, che ha pubblicato per Einaudi “Gli incendiari”, Ingrid Rojas Contreras de “L’uomo che spostava le nuvole” e Lauren Markhan, che non è ancora stata tradotta in italiano. E dimenticavo, con noi c’era la scrittrice che ha inventato la parola mansplaining, Rebecca Solnit. Eravamo al City Lights Bookstore. Quella sera il progetto era andare al karaoke e poi come sono andate le cose abbiamo dovuto rinunciare. Progetta di tradurre altri libri o pensa che "Il grande Gatsby" potrebbe essere il suo unico libro tradotto? Se lo fosse ne sarei comunque felice. Fa un certo effetto quando mi chiedono, che libri hai tradotto: “Il Grande Gatsby e sto”, rispondo. In realtà mi piacerebbe scovare dei titoli e proprorli per una traduzione alle case editrici, vediamo. Intanto sto scrivendo un romanzo.

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Ludovica Passeri