Referendum, la cittadinanza è anche una questione di reddito

Il quinto quesito del referendum dell’8 e 9 giugno vorrebbe ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza continuativa necessari per fare richiesta di cittadinanza. Eppure, anche in caso di vittoria del Sì, l’alloggio in Italia non sarebbe comunque un requisito sufficiente per ottenere il passaporto: serve anche dimostrare la conoscenza della lingua italiana, l’assenza di precedenti penali gravi e il possesso di un reddito adeguato. Dove per “adeguato” il legislatore intende non inferiore a 8.263,61 euro per persone celibi o nubili. Non molti, a prima vista. Ma abbastanza per escludere potenzialmente quasi 700mila persone dal computo, stilato dal Centro studi e ricerche Idos, della platea coinvolta dal referendum. Circa il 40% delle famiglie straniere in Italia, infatti, vive in condizioni di “rischio di povertà” o “rischio di esclusione sociale” . Per loro, il compito di dimostrare ogni anno un reddito superiore agli 8mila euro è complicato anche dalla qualità del lavoro, spesso ‘nero’ o ‘grigio’: “È una condizione discriminatoria legata al censo – commenta Luca Di Sciullo, presidente Idos – Non c’è nessun motivo di legare la possibilità di fare domanda alla capacità reddituale se in gioco c’è la cittadinanza, che è l’esercizio pieno dei diritti e dei doveri”. Cittadinanza "potenziata" Ricapitolando: per chiedere il passaporto italiano, serve dimostrare la residenza continuativa in Italia da 10 anni e un reddito superiore agli 8mila euro. Soddisfatti questi requisiti, inizia l’iter per ottenere la cittadinanza, che può durare altri tre anni – a seconda dei ritardi nelle Prefetture – e costare fino a 600 euro a persona. Secondo Idos, si tratta di un altro limite de facto all’accesso ai diritti. “Immaginiamo una famiglia con due genitori e un solo figlio – ragiona Di Sciullo – che deve affrontare le pratiche per richiedere la cittadinanza. Potrebbero dover spendere fino a 1.800 euro che, per un nucleo indigente o ‘a rischio di povertà’, sono molti soldi da mettere da parte. Nella migliore delle ipotesi, li accumulano attendendo altro tempo. Nella peggiore, si accontentano del permesso di soggiorno”. Quello del reddito, o di un impiego stabile, è un requisito che non tutti i Paesi europei chiedono a chi fa richiesta di cittadinanza. Lo esigono Germania, Francia e Austria ma non è importante per Spagna e Irlanda. Secondo il Centro di ricerche Idos, si tratta di un ostacolo “discriminatorio” all’integrazione: “La cittadinanza, per sua natura, è disconnessa da barriere legate al censo – sostiene Di Sciullo – Quando un immigrato viene in Italia e ci rimane per un po’ di tempo, compra, lavora e contribuisce al benessere di chi vive su quel territorio. È corresponsabile alla vita collettiva e per questo potrebbe subito essere considerato cittadino e iniziare il percorso di integrazione”. L'impatto del lavoro straniero sul Pil “Un premio”. Così il presidente del Centro Idos definisce il passaporto per le persone che già lavorano in Italia. Eppure, che si conceda o meno la cittadinanza – e che vinca o meno il Sì al referendum – la popolazione straniera in Italia contribuisce comunque alla produttività del Paese. Lo fa per l’8,8% del Pil, secondo i dati della Fondazione Leone Moressa. Numeri che raddoppiano nei settori in cui la manodopera non italiana viene impiegata in percentuali più alte: nell’agricoltura vale il 16,4% del Pil e nell’edilizia il 15,1%. Nel settore agricolo, in particolare, i lavoratori stranieri contano per il 17,7% dei 1.296.000 lavoratori ma lavorano, secondo il settimo rapporto “Agromafie e Caporalato” dell’Osservatorio Placido Rizzotto, per il 34,2% del totale delle giornate. Sono, cioè, più produttivi dei loro colleghi italiani. “Il lavoro migrante è prezioso per interi comparti produttivi italiani – spiega Jean-René Bilongo, presidente dell’Osservatorio Placido Rizzotto di Flai Cgil – Penso all’agricoltura, ma anche ai servizi alla persona, al turistico-alberghiero e all’edilizia. Parliamo ovviamente delle mansioni più umili”. Caporalato e lavoro nero come ostacoli alla cittadinanza In effetti, alla popolazione straniera è riservato l’accesso al lavoro più povero. Il settore agricolo, per esempio, dove si concentra gran parte della manodopera extracomunitaria, offre “rapporti di lavoro intermittenti ma piuttosto intensi come carico orario”, spiega il rapporto Agromafie e Caporalato. Che pubblica anche la retribuzione mediana annuale nel settore, di poco superiore ai 6mila euro. Una cifra insufficiente per accedere alla cittadinanza italiana. “In Italia ci sono persone che subiscono il caporalato anche per 20 anni – denuncia Bilongo – e lo accusano in silenzio perché hanno bisogno di quel misero reddito. Se a questo aggiungiamo che devono dimostrare di avere un alloggio certificato, capiamo che queste persone potrebbero non fare mai domanda per la cittadinanza”. Nel 2023 i casi di caporalato sono stati 2.123 e, secondo i dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro, il tasso di irregolarità nel settore agricolo ha raggiunto il 59,2%. “Si tratta di un lavoro schiavistico – conclude Bilongo – ma alle persone straniere sono riservati quasi solo questi posti di lavoro: badanti, colf, muratori e agricoltori. È chiaro che, senza una politica di integrazione seria, la cittadinanza per molti diventa un miraggio. Per arrivare a un’inclusione vera, servirà abbattere queste barriere che riguardano anche il lavoro, i redditi e il diritto alla casa”.

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