Caravaggio torna "a casa", le 24 tele che illuminano palazzo Barberini

Un ritorno a casa che commuove, come quando ci si ritrova, tutti insieme, dopo tanto tempo. 24 tele di Michelangelo Merisi, del Caravaggio, insomma, si sono date appuntamento alla Galleria Nazionale d’Arte Antica e l’accoglienza non poteva essere più calorosa. Ogni volta che si è al cospetto del maestro lombardo, è più il cuore che la mente a parlare, travolto dalla meraviglia dei suoi colori, dai suoi soggetti, dai volti, gli sguardi, le ombre, la luce. Ecco, la luce. Quella luce che arriva e colpisce, che ci dice dove guardare, che ci insegna a vedere. Caravaggio è anche la sua vita avventurosa, mascalzone, donnaiolo, ribelle, vita che non è in mostra ma che i suoi lavori ci restituiscono, catapultandoci nella sua epoca, in quegli anni, a cavallo tra il ‘500 e il ‘600, quando l’Italia era ben al di là dal farsi, il Papato era fortissimo e la popolazione si divideva - più o meno - tra nobiltà e plebaglia. I giorni del Merisi trascorrevano burrascosi e quando non dipingeva, frequentava bettole, a loro volta frequentate da prostituite, ladri e povera gente. Una umanità variopinta, che finiva dritta nei suoi quadri, con le vesti, talvolta, di santi e madonne, ma le fattezze di uomini e donne incontrati, soprattutto, nei suoi spostamenti tra Lombardia, Roma, Napoli, Malta e la Sicilia, fino a Porto Ercole, in Toscana, dove morì nel 1610. Si può non capire d’Arte, si può non apprezzare la Pittura ma è quasi impossibile non amare Caravaggio. Ci coglie di soprassalto, la bellezza delle sue opere e ci rimbomba nello stomaco, ci sopraffà e ci stordisce. Non si sa dove guardare, mentre si passeggia tra le opere, per il tanto che c’è, tra un Martirio di Sant’Orsola e una Conversione di San Paolo, tra un Narciso e un Bacchino malato, una Flagellazione di Cristo e un San Francesco in meditazione; di più: Davide con la testa di Golia, la Cena in Emmaus, La buona ventura, il Ritratto di Maffeo Barberini. Fino a contarne 24 di storie che conquistano. 24 capolavori che fanno di questa mostra, una mostra evento, che porta Caravaggio a Roma, nell’anno del Giubileo. Un appuntamento da non mancare, una visita da ricordare per sempre, come accade con gli incontri importanti della nostra vita. Il direttore della Galleria nazionale d'Arte antica, Thomas Clement Salomon Direttore, quale sentimento la pervade, oggi? Mi pervade la gioia di poter offrire a Roma in una occasione così importante, in un anno così importante, quello del Giubileo, una mostra evento, una mostra epocale con 24 dipinti di Caravaggio, che è un qualcosa che ci vuole qualche decennio per mettere insieme, normalmente. Qual è stata la sfida che si sente di aver vinto? Riuscire a mettere in piedi questa mostra è stata la sfida più grande. Erano infinite le motivazioni scientifiche, le scoperte. Abbiamo qui in mostra l’Ecce Homo, riscoperto nel 2021 a Madrid, il ritratto di Maffeo Barberini che abbiamo presentato recentemente, che non si vedeva dagli anni ’60; ovviamente, riuscire a ottenere in prestito tutte queste opere straordinarie di cui i musei non si vogliono privare e poterle offrire al pubblico di Roma. Perché Caravaggio è così amato dal grande pubblico? Innanzitutto, perché nei suoi dipinti c’è la sua vita, sono – in qualche modo – un’autobiografia. Nei suoi dipinti sono presenti le persone che ha amato, ragazzi, donne; ci sono i suoi autoritratti, attraverso la pittura si vedono anche il suo percorso, il suo tormento, la sua fuga, in seguito all’omicidio di Ranuccio Tomassoni. La sua è la pittura della realtà, lui è un rivoluzionario che ha introdotto la pittura della realtà un qualcosa che ci fa sentire molto vicini ai suoi dipinti, sono immediatamente percepibili e apprezzabili dal pubblico. Possiamo considerare questa mostra un rilancio, per la Galleria nazionale d’Arte antica? Un rilancio non saprei ma sicuramente l’intenzione è che questo straordinario museo – che ha quattro dipinti di Caravaggio e la collezione di caravaggeschi più importante al mondo – sia in prima fila negli studi dedicati a Caravaggio e sia la sede naturale per quello che al momento credo sia il progetto di mostra più ambizioso in Europa. La impressiona il numero altissimo di prenotazioni o lo dava per scontato? Fa molto piacere, lo immaginavamo, abbiamo già prevenduto sessantamila biglietti e la mostra è appena iniziata: questo dà un po’ l’dea della richiesta che ci può essere. C’è un’opera di Caravaggio che preferisce? Veramente sono tante. Forse, su tutte, il San Giovanni Battista – del Nelson Atkins Museum di Kansas City, è un dipinto straordinario. Qual è stata l’opera di Caravaggio più difficile da avere in prestito? Ogni prestito di Caravaggio corrisponde, praticamente, a un’estradizione; nessun museo se ne vuole privare. Devo dire che ciò che è stato importante è gestire queste complessità e arrivare in qualche modo a un ottimo risultato. La curatrice della mostra, Maria Cristina Terzaghi Che cosa ci colpisce, di questa mostra? Questa mostra espone 24 capolavori di Caravaggio e già questo è un numero molto alto, per un artista che ha un percorso di circa 60 opere. È qualcosa di abbastanza singolare e straordinario, vedere radunate le opere che documentano i tratti salienti di tutto il percorso dell’artista, della sua intera carriera. In particolare, abbiamo voluto esporre anche delle opere di difficile accesso o impossibile accesso, perché sono pochissimi i capolavori di Caravaggio ancora custoditi in collezioni private e noi li abbiamo esposti. Tra questi la bellissima Conversione di Saulo di proprietà della famiglia Odescalchi, poi, abbiamo l’Ecce Homo che è stato appena rinvenuto a Madrid e poi abbiamo il bellissimo ritratto di Maffeo Barberini, che si trovava in una collezione privata ed è dal 1963 che nessuno più lo aveva visto. Insomma, abbiamo voluto proprio offrire questa possibilità, sia al pubblico sia agli studiosi, perché anche per gli studiosi è molto importante, di poter vedere queste opere riunite insieme. È giusto dire che la vita di Caravaggio si riflette come per pochi altri nelle sue opere? Sicuramene c’è un coinvolgimento di Caravaggio molto importante nei quadri che lui dipinge e questo è testimoniato, per esempio, dalla quantità di autoritratti che lui inserisce in opere anche sacre, a partire dalla Cappella Contarelli ma qui in mostra abbiamo la bellissima Cattura di Cristo del Museo di Dublino e il Martirio di Sant’Orsola dove non soltanto Caravaggio, come fa nelle mezze figure, utilizza la propria figura, per esempio nei Musici, come parte del quadro ma qui proprio si autoritrae mentre osserva la scena sacra. Questo è molto interessante, perché testimonia un coinvolgimento assolutamente diretto con quello che stava succedendo. Possiamo dire che lui porta la gente presa dalla strada, nelle sue opere? Caravaggio dipinge dal modello e i modelli non potevano essere delle persone aristocratiche, dovevano essere delle persone del popolo, che lo facevano per guadagnare. Era un mestiere come un altro, quindi, assolutamente i suoi personaggi sono presi – oggi diremmo – dalla strada. Abbiamo un fortissimo coinvolgimento con la realtà soprattutto, quando va a Napoli. C’è addirittura un coinvolgimento con la città, nelle sette opere di misericordia, dove si dice lui abbia veramente dipinto i vicoli di Napoli. Dunque, sicuramente la sua pittura ha dato il “la” a tutta una serie di pittura che mette in scena anche un certo pauperismo che prima non si vedeva sicuramente sugli altari. La Madonna dei pellegrini, con questi due poveri in primo piano, che sono i pellegrini che arrivano a Loreto, alla Santa Casa, è stato qualcosa di forte; tanto che Baglione dice che dai popolani “fu fatto grande schiamazzo”, che ha un’accezione assolutamente neutra, nell’italiano di quel tempo, dunque, se ne parlò molto. Qual è stato il rapporto di Caravaggio col mondo ecclesiastico? È stato sempre protetto da cardinali, ha avuto dei grandi committenti nell’ambito cardinalizio che l’hanno protetto. L’idea che i quadri fossero rifiutati non sta più in piedi. La storiografia ha completamente cambiato questa visione; c’è solamente un quadro di Caravaggio, La morte della Vergine, una pala d’altare pubblica che è stata rifiutata ma poi venne rifiutata anche al pittore che fu chiamato a rifarla. Quindi, evidentemente, i Carmelitani avevano un’esigenza di un’immagine ben precisa e finché non l’hanno avuta, non l’hanno tenuta. Tra l’altro, per quello stesso quadro, Giulio Mancini dice al fratello “Qui a Roma non l’hanno voluto, lo metteremo in una chiesa a Siena”. Voglio die che la Chiesa era molto varia e variegata, non è univoca anche in quel momento. È stato amato moltissimo dal cardinale Borghese, che è il pontificato successivo, era il cardinal nepote non di Clemente VIII ma quello di Paolo V, per cui non abbiamo riscontro di particolari problemi con la Chiesa. Certamente, per esempio Federigo Borromeo, dice che i costumi di questo pittore non erano limpidi e ciononostante si compra una sua opera La canestra di frutta, che oggi sta alla Pinacoteca ambrosiana. Anche il fatto di aver ucciso un uomo, non gli preclude affatto la strada delle commissioni e a Napoli viene subito ingaggiato per due opere sacre. Quindi, non c’è assolutamente distanza col mondo ecclesiastico. Nei lavori di Caravaggio i dettagli sono importanti? I dettagli sono molto importanti. Devo dire, però, che a mano a mano che lui prosegue nella sua carriera, diventa molto sintetico. Il dettaglio certamente è fondamentale, penso a una bellissima natura morta che vediamo in un quadro giovanilissimo, come il San Francesco di Hartford che è qui esposto; penso ai suoi bellissimi quadri di natura morta ma per Caravaggio la cosa importante è l’uomo. Lui si concentra sulla figura umana, abbiamo pochissimi paesaggi nella sua pittura, perché non era, evidentemente, interessato a questo aspetto. Lui è un grande pittore, si dice, di natura morta; quindi, ci sono dei dettagli che lui ama e ritrae, soprattutto, nelle opere di genere, nelle prime opere ma poi anche andando avanti. Se pensiamo a come ha restituito i costumi nei quadri in cui c’è la bellissima modella che è la protagonista dei tre dipinti che qui raccogliamo, come Giuditta e Oloferne, chiaramente, c’è un amore anche per la restituzione delle stoffe, dei tessuti ma ribadisco, il suo non è su quello. Lui era un grande artista, sapeva fare ciò che voleva ma l’interesse di Caravaggio è prettamente anche sull’espressione del pathos umano, non soltanto sulla figura. La luce nei quadri di Caravaggio è fondamentale, cosa ci dice in proposito? Lui ha capito come pochi altri le potenzialità della luce, tanto che, proprio vedendo questa mostra, mi stupisce come – da un certo punto in poi – certe cose non le illumina. Cioè, le parti illuminate non le finisce nemmeno, quindi, ha un’idea molto precisa di quello che è la luce, quasi da regista. Anche la scelta a un certo punto di – come dice Bellori – ingagliardire gli oscuri e dipingere in una stanza – si dice – dipinte di nero, che prendeva lume, dicono le fonti, solamente dall’alto. Abbiamo ritrovato che era stato rotto il tetto o almeno una sua parte e c’è una vertenza con la proprietaria della casa, ti fa capire che lui aveva un’idea della luce che – come si diceva nel ‘600 dava rilievo a li corpi. Le potenzialità della luce e dell’ombra facevano emergere i corpi con maggiore potenza. C’è poi un aspetto della luce e di questo ha parlato molto Maurizio Calvesi, che è sacro e questo si vede, per esempio, nelle tele della Cappella Contarelli. Il fascio di luce colpisce Matteo ed è, indubbiamente, una luce che non è naturalistica, è una luce simbolica. Quindi, in molti momenti della sua carriera, la luce viene usata anche con un valore simbolico, non solamente naturale e questo è molto interessante. Che tipo di percorso espositivo avete creato? Il percorso è molto tradizionale, perché ha un andamento biografico, segue la biografia e la carriera dell’artista; questo, anche per permettere a tutti di poter seguire con facilità. In ogni dipinto, però, abbiamo scritto nelle didascalie molto chiaramente la provenienza. Questo perché in questa mostra raduniamo intere collezioni antiche. Per esempio, i quadri di Ottavio Costa, che è stato un grande collezionista, un amatore di Caravaggio, sono tutti e tre presenti in mostra. Dunque, volendo si può fare anche un percorso attraverso la committenza delle opere. La curatrice della mostra, Francesca Cappelletti Altro che pittore, possiamo dire che Caravaggio è come una rockstar? Lo è stato per buona parte del ‘900, lo è ancora adesso ma non ci dobbiamo dimenticare il suo ruolo all’interno della Storia dell’Arte, quindi, dobbiamo cercare di trattarlo da pittore, nonostante tutto. Come facciamo a restituirgli l’aura di pittore che giustamente gli compete? Credo che la mostra, in questo senso, ci aiuterà molto. È una mostra che va dagli esordi, in cui si vede già la capacità inventiva di questo artista, che porta a Roma il quadro senza soggetto, porta a Roma la natura morta, quindi, una serie di invenzioni, come si chiamano all’epoca, che poi lascia in eredità a tutta la pittura del ‘600, a tutti gli artisti che arrivano a Roma da ogni parte d’Italia e d’Europa e che si stordiscono sui dipinti di Caravaggio, che davvero non riescono a guardare niente altro. Ci sono dei biografi dell’epoca che dicono che in realtà che Caravaggio avesse insegnato ai giovani pittori a non studiare più l’antico, la tradizione, i maestri come Raffaello, a fare le teste, la figura singola, quindi, dei quadri che erano in un certo senso più semplici. Questi, però, sono i detrattori. Ciò che noi capiamo oggi della pittura del Merisi, è proprio questa ispirazione tratta dal reale e questo forzare davvero i limiti del reale. Quindi, un’osservazione che alla fine è talmente acuta che porta al misticismo. A cosa attribuisce la popolarità di Caravaggio? L’impatto dei suoi dipinti, questa forza comunicativa del quadro che parte dal modello vivente, rende i suoi personaggi riconoscibili, come se il senso del sacro investisse la quotidianità. Stiamo davanti ai quadri di Caravaggio cercando di capire come mai suoi personaggi siano bloccati lì dalla luce, dall’ombra, da questi contrasti così forti, fra il buio e la capacità che ha l’artista di estrarre, con questa luce improvvisa, con questo chiaroscuro così tagliente, le emozioni dei suoi soggetti, le emozioni dal quadro. È un modo di specchiarsi, che va molto bene per l’anima contemporanea, queste continue domande, questa ricerca di risposte, da parte di immagini mute. Nelle opere di Caravaggio spesso lui si autoritrae, perché? Lui lavora sull’autoritratto, uno di quelli da comprendere ancora a fondo è quello in veste di Bacci che inventa il vino. Il bacchino malato è la sua immagine iniziale, come lui si presenta a Roma, perché è uno dei suoi primi quadri. Più avanti, invece di essere così centrato su sé stesso o anche soltanto di ritrarsi per assenza di altri modelli - Caravaggio all’inizio lavorava allo specchio e quindi come protagonista dei suoi primi dipinti – il suo volto, la sua presenza, dopo, si ritrovano in scene drammatiche, nel Dramma sacro, come abbiamo chiamato una delle sezioni della mostra. È il personaggio che alza una luce per cercare di capire che cosa accade nel momento della Cattura di Cristo, nel quadro che arriva da Dublino e quasi nella stessa posizione lo ritroviamo nel Martirio di Sant’Orsola; senza dimenticare la Cappella Contarelli, dove lui si era raffigurato all’interno di scene sacre. È come se fosse una presenza contemporanea di qualcuno che tenta di esplorare il mistero delle storie religiose, cercando di portare una luce umana, una luce che, però, rimane senza conseguenze all’interno di queste storie. Lei è anche direttrice della Galleria Borghese. Cosa avete prestato? Da noi arriva il Bacchino malato, appunto, opera capitale degli esordi, senza di essa non riusciamo a capire l’inizio di Caravaggio a Roma; il Davide con la testa di Golia, altro dipinto straordinario, sospeso tra due datazioni 1607 e 1610, quindi, ci sarà anche un po’ di dibattito da parte degli studiosi e poi San Giovanni Battista, un dipinto che non poteva mancare nell’epilogo, nella chiusura della vita di Caravaggio e della mostra, proprio perché è il compagno necessario del Martirio di Sant’Orsola. Abbiamo cominciato parlando di rockstar, possiamo chiudere parlando di grande regista? Caravaggio, se fosse stata un’altra epoca, avrebbe potuto essere un regista? Il Cinema del ‘900 ha imparato molto di Caravaggio. Parla di lui – tra i tanti altri – Pasolini. Il Merisi è una presenza costane nel Cinema del ‘900; è stato letto in questo modo perché soprattutto questo uso della luce ha lasciato moltissimo, è stato di grande ispirazione per chi deve mettere in scena il dramma.

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