Studio Pizza, Monster Chef e il futuro del videogioco indie italiano

I magnifici 7 del videogioco Made in Italy hanno tra i 25 e i 34 anni. Armati di talento e creatività cavalcano un sogno: la conquista di un mercato che non ha confini di territorio, di genere o di età. La rete, quella informatica, è il loro ambiente di lavoro. Ma è la rete sociale, fatta di passioni e amicizie comuni che li ha fatti conoscere. Mescolate insieme le loro competenze hanno vinto nel dicembre del 2022 il bando Bologna Game Farm del Comune di Bologna e Art-ER, che gli ha consentito di creare un videogame tutto loro. Nel 2023 l’inizio del percorso di accelerazione. Oggi sono lo Studio Pizza e il quartier generale è nel capoluogo emiliano. Gregorio Zanacchi Nuti è il fondatore del gruppo: “Il bando pubblico Bologna Game Farm è stato molto importante. Lo abbiamo vinto e ci ha garantito un finanziamento a fondo perduto di 30mila euro per realizzare un videogioco. Da lì è cominciata la nostra avventura, il nostro lavoro attuale.” Quali competenze avete unito? Non siamo tutti esperti di informatica. Il team è composto da un programmatore, ingegnere informatico, che si occupa di scrivere il codice del software. C’è un ex fumettista, Roberto D’Agnano, il nostro grafico 2D. Abbiamo un’animatrice 2D, un colorista, un compositore e sound designer, una social media manager mentre io sono game designer e art director, la persona che traccia la rotta del progetto e coordina il gruppo. Il vostro videogioco quando sarà disponile? Nel 2025. Inizialmente sarà disponibile su PC. Per renderlo adatto ad altre piattaforme, come le consolle, è necessario un investimento. Siamo un team indipendente ma stiamo cercando finanziamenti. Studio Pizza è un nome originale per un gruppo che si occupa di videogame Lo abbiamo scelto perché la Pizza piace a tutti ed è italiana. Negli ultimi 15 anni, che hanno segnato il boom degli Indie Game ovvero di videogiochi realizzati da team piccoli con budget piccoli, ci sono state tante micro realtà che dall’Europa si sono affermate sulla scena mondiale dei videogiochi e hanno portato qualcosa della propria identità nazionale. Noi siamo italiani e il nostro Paese ha un sacco di cose amate ovunque nel mondo. Studio Pizza ci rappresenta e ci fa riconoscere immediatamente come una realtà italiana e poi è un nome pop. Non solo. Il nostro gioco vuole portare concretamente un po’ d’Italia nelle case di tutti coloro che lo scaricheranno. Si chiama “Monster Chef” Perché è incentrato sul cibo, abbiamo inserito una lunga lista di piatti della nostra tradizione come pasta, pizza, arrosticini. Rivisitati. Ma i nomi dei personaggi, come succede nelle produzioni giapponesi, rimarranno in lingua originale. Saranno in italiano in ogni versione del gioco. Il nostro protagonista si chiama Pranzo e rimarrà Pranzo in ogni lingua. Quale traguardo vi siete posti? Sicuramente di diventare il più grande sviluppatore indipendente in Italia. Un team “Indie” nel mercato dei videogiochi è un gruppo che lavora con poche persone e rispetto alle grandi produzioni realizza giochi più piccoli. Ma proprio grazie alle sue dimensioni ridotte ha possibilità di sperimentare. Qual è lo stato di salute del settore videogame? Negli ultimi anni il mercato mostra abbastanza chiaramente una debolezza in particolare. La corsa al fotorealismo, alla grafica più bella è un cavallo che non corre più. Esiste un limite per rendere il prodotto visivamente sempre più bello, più simile alla realtà. E questo limite è stato ormai raggiunto. Oggi i consumatori cercano soprattutto esperienze nuove rispetto a quelle che puntano sulla grafica e sull’effetto meraviglia. A noi, in questo, piacerebbe diventare leader di settore. Che tipo di formazione occorre? Non esistono università in Italia che preparino al mercato e al mondo del videogioco. A Bologna l’Accademia di Belle Arti ci sta provando. L’idea è arrivare a offrire agli studenti corsi specifici. Per quanto riguarda il video gioco noi siamo tutti fieramente autodidatti. Nessuno ha frequentato delle accademie per arrivare a ricoprire il ruolo che adesso ha all’interno del team. Siamo in due ad avere un percorso universitario. Gli altri hanno seguito dei corsi. Il nostro programmatore si era iscritto a una Facoltà di Informatica, l’ha mollata ma ha continuato a formarsi da solo ed è arrivato a un altissimo livello. Che oggi gli permette di fare quello che fa. Diceva che non è più la grafica realistica a fare vendere i videogiochi ma l’esperienza che si offre al giocatore. Il futuro è anche “vintage”? Il nostro Monster Chef ha una grafica cartoon, strizza l’occhio al mondo dei fumetti, alla cartoon network dei primi anni Duemila. Ha una qualità grafica elevata perché c’è una ricerca visiva molto pronunciata anche da parte nostra, però con investimenti più contenuti. È vero, esiste un legame tra futuro e vintage. Ma non è una questione di grafica, lo è più di meccanica e di esperienza. I primi videogiochi avevano come fulcro il gioco stesso non la narrativa. Pac-man, Space Invaders o Pong, erano esperienze interattive, non c’era una trama. Quello che sta tornando è questa tendenza. Invece di offrire, come è stato per le produzioni molto grandi, giochi di 8 ore molto cinematici ma conclusivi, i giochi che appartengono a questi generi utilizzano le stesse grafiche ma con esperienze rigiocabili. Nel nostro gioco è così: vai a cacciare dei mostri che devi cucinare combattendoli in un bosco e la collocazione dei mostri, la forma del bosco, quello che tu trovi è realizzato sempre con le stesse grafiche ma ogni volta che tu entri nel bosco la disposizione è differente. Quindi l’esperienza è sempre nuova perché la disposizione crea dei rapporti differenti tra gli oggetti sulla scena e la partita è ogni volta diversa. Il giocatore invece di fruire di una storia simile a un film interattivo, gioca un prodotto che è prima di tutto un videogioco, un’esperienza arcade. I videogame restano un prodotto soprattutto per i più giovani? Il videogioco si sta emancipando con molta forza. Non è più un giocattolo, un prodotto di intrattenimento per ragazzi. Il videogioco come la televisione, la radio e il cinema, fa parte dei media. E come tutti i media offre prodotti per diversi segmenti di pubblico. Noi stiamo cercando di sviluppare una proposta trasversale. Il gioco Monster Chef ha una grafica molto colorata con personaggi cartoon che facilita la fruizione da parte del pubblico femminile però allo stesso tempo il gioco ha delle sequenze di combattimento impegnative, cosa che interessa solitamente il pubblico maschile. Ma c’è anche una componente manageriale. Nella nostra ambientazione fantasy i mostri li vai a cacciare ma li devi poi cucinare. Dopo il bosco torni nella tua locanda e li servi ai clienti, quindi devi prenderti cura degli avventori, fare amicizia con i personaggi che ti vengono a trovare e devi pulire la locanda. Per noi non è semplice rivolgerci a giocatori giovanissimi. La loro fascia di età è orientata ai social come TikTok che ha standardizzato la soglia di attenzione su medie bassissime, intorno ai 3 secondi. La fascia di consumatori interessata a prodotti indipendenti come il nostro va dai 25 ai 40 anni di età. I nostri coetanei. Ma stiamo lavorando per far apprezzare questo videogioco anche a chi è abituato a una interazione visiva e a stimoli diversi. Per il vostro lavoro che panorama offre il nostro Paese? Ci sono tantissime produzioni interessanti in Italia. Sicuramente Bologna è un posto importante per il videogioco indipendente, è una città in cui stanno aumentando iniziative e opportunità. Se Milano è la capitale del videogioco Corporate, Bologna si candida a diventare la capitale del videogioco Indie italiano. Voi dimostrate che anche in Italia si può vivere con i videogame È un mestiere a tutti gli effetti seppure abbastanza complesso. In questo momento il videogioco vive un iter produttivo simile al fumetto o al libro. Si presenta una proposta a un editore che decide se finanziare o meno il progetto. Il mercato si è gonfiato molto durante il Covid ma dopo la pandemia i numeri sono calati perché le persone sono tornate a uscire di casa. Oggi, rispetto a quel momento storico, è meno semplice trovare un editore. Ma una volta che il gioco è pubblicato gli store online ti permettono di avere una distribuzione mondiale. È un lavoro che può diventare molto redditizio. Voi volevate fare videogiochi nella vita o è capitato? Io sì, fin da quando ero bambino. Ci ho creduto e ho realizzato un gioco di carte atipico, autoprodotto, che stiamo tutt’ora vendendo. Poi è capitato Monster Chef. Contate di farcela da soli? La questione degli investitori è complessa, un mondo che non è molto etico. Spesso gli editori non forniscono garanzie di alcun tipo, hanno tempi di attesa molto lunghi e spesso offrono risposte contrastanti. Stiamo cercando interlocutori e il problema quasi sempre è che c’è estrema diffidenza nei confronti di chi è all’esordio e non ha già un passato consolidato in questo mestiere. Un paradosso che accomuna tutto il mondo del lavoro di oggi: devi essere già professionalizzato per poter lavorare. Malgrado le difficoltà, essere indipendenti garantisce una libertà creativa che può risultare determinante per il vostro successo. È così. Una cosa che ci accomuna è credere che il videogioco sia un’arte. Letteralmente. E quindi è molto difficile realizzare un progetto artistico multimediale complesso come un videogioco nel momento in cui si deve rispondere anche alle pressioni di persone che hanno altre priorità. Si parla spesso di crossmedialità, cosa nella sua formazione l’ha influenzata di più? Come videogiochi dico Pokemon Rosso e blu. Ma anche The Binding of Isaac, un capolavoro dei videogiochi indipendenti, letteralmente la scintilla del movimento indie che è cominciato circa 15 anni fa. Poi cito la serie di Dark Souls di una software house giapponese che ha fatto giochi incredibili. Per quanto riguarda i libri sicuramente Il Signore degli anelli mentre per il cinema i film del mio regista preferito, Alejandro Jodorowsky. Quale consiglio darebbe a chi il sogno, che voi state realizzando, ce l’ha nel cassetto? Innanzitutto, di venire a Bologna. Anche se il videogioco è un prodotto che apparentemente si può realizzare in remoto, da casa propria, le connessioni tra le persone e la possibilità di confrontarsi fisicamente con altri impegnati in questo ambiente fa la differenza. Soprattutto all’inizio. Ed è quello che ci è stato possibile fare grazie al bando. Noi nel percorso di accelerazione abbiamo conosciuto persone già professionalizzate, con esperienza in ambito videoludico. E questo ci ha permesso di migliorare il progetto molto velocemente. Se lo avessimo sviluppato dalle nostre camerette saremmo molto più indietro. Per me i rapporti umani, quando si vuole intraprendere un percorso artistico, sono fondamentali. Un feedback può salvarti dal prendere una direzione che ti farebbe sprecare tempo così come è importante ascoltare sempre le opinioni degli altri e non ignorare le richieste dei giocatori che provano il gioco. Chiaro, inoltre, che bisogna creare un gruppo di lavoro affiatato, fatto di persone di cui ci si fida. In ultimo non bisogna tirarsi indietro ma semplicemente fare. Il consiglio è impegnarsi a realizzare dei prodotti in cui crediamo e se sono brutti bisogna buttarli e ricominciare. Non avere paura di un Game Over insomma? Esattamente. Con un inciso però: fai tante prove ma fai qualcosa che valga la pena essere giocata. Perché di cose che non vale la pena giocare è pieno Internet.

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