Come ricostruire il tuo albero genealogico? La guida di Giulia Depentor

L’albero genealogico di Giulia Depentor ha messo radici in una cabina telefonica dell’Occitania. Nel 1996 lo zio Stefano, che si trovava in Francia per un viaggio di lavoro, aveva inserito i gettoni, sollevato la cornetta e sfogliato distrattamente l’elenco telefonico. Tra le pagine aveva notato un nome, “Emilia Depentor”, che non aveva mai sentito prima. Dopo aver infilato in tasca il foglio strappato, aveva riportato alla famiglia la buffa coincidenza. Giulia, che all’epoca aveva 13 anni e da sempre subiva il fascino delle storie del passato, si era quindi fatta coraggio e aveva spedito una lettera in francese alla parente sconosciuta. «Non mi ero resa conto che sarebbe stato l’inizio di una ricerca genealogica che dura ancora oggi», racconta la genealogista, esploratrice di cimiteri e scrittrice, che nel libro Dinastia. Alla ricerca della tua storia di famiglia tra segreti e misteri viaggia nel tempo. «Adesso il mio albero genealogico è gigantesco, occupa un’intera parete del mio studio». I rami degli antenati si intrecciano fino alla metà del Settecento, poi bucano un tunnel temporale e germogliano ancora alla fine del Cinquecento, quando Andrea Vivarini, un pittore e laccatore di mobili di Murano , aveva scelto per i figli un cognome inedito. «La ricerca genealogica ha tre significati: tenere viva la memoria delle persone che non ci sono più, comprendere sé stessi grazie alle loro storie e rendere giustizia alle vicende dolorose che sono state dimenticate». Peraltro, secondo un ulteriore metodo di indagine chiamato psicogenealogia e basato sull’analisi degli eventi e dei traumi vissuti dagli avi, è possibile capire se le loro luci e ombre «si siano tramandate nel “subconscio familiare”, perché noi siamo il frutto di dinamiche accadute anche centinaia di anni fa». Per fiorire, il seme della botanica generazionale deve ricevere il nutrimento del «parente onnisciente, una figura fondamentale che rammenta con memoria di ferro le storie e le leggende di famiglia e che conserva in uno scrigno delle meraviglie immagini e filmini», spiega Depentor, che grazie alla prima scatola di ricordi spalancata dalla zia Anna ha accumulato una collezione di tesori. «Una volta ho trovato la foto di un matrimonio di parenti lontanissimi, che mi ha divertita molto per i commenti scritti sul retro, dal brutto vestito di un’invitata all’espressione strana di un ospite. In un’altra occasione ho invece scoperto il ritratto di un gruppo di bambini scattato negli anni Venti. Tra loro c’era la mia nonna materna, Isetta. È tuttora la testimonianza più preziosa che possiedo, perché nell’immagine compare anche una signora anziana, la mia trisnonna Luigia, che era nata addirittura intorno al 1860». TROVATELLI, DONNE, CONTADINI: LO SPECCHIO DELLA SOCIETÀ «Quando si incastrano i pezzi del puzzle, provo un grande entusiasmo», racconta Depentor, che tuttavia si imbatte anche in vite logorate dalla sofferenza. «Ho appreso da poco che la mia trisnonna Pierina, una donna misteriosa della quale nessuno sapeva niente, era una trovatella. Scoprire la verità sulle sue origini è stato complicato. Tutto è partito da una leggenda di famiglia, secondo la quale la mia bisnonna Angela Virginia, cioè sua figlia, sarebbe stata l’erede illegittima di un conte. Si diceva che la madre avesse lavorato come domestica nella casa del nobiluomo, che poi non aveva riconosciuto la bambina. Io, però, non avevo trovato riscontri, a maggior ragione perché i documenti sulla mia bisnonna erano andati distrutti durante la Grande Guerra. La mia ricerca si era quindi bloccata», spiega. «La svolta decisiva è arrivata grazie alle ricerche negli archivi parrocchiali. Lì ho scoperto il luogo di nascita di Pierina: la città di Venezia, che fino ad allora avevo sempre considerato estranea alla mia geografia familiare, invece concentrata nella provincia di Treviso». Depentor, originaria di San Donà di Piave, aveva cercato a lungo nel posto sbagliato, ma aveva infine deviato la rotta su gondole e canali. «Pierina era figlia di ignoti, nello specifico di “una madre che non consente di essere nominata”. Dopo la nascita era stata lasciata al Pio Ospedale degli Esposti, cioè in un antico orfanotrofio. Ho intuito che probabilmente la figlia illegittima della domestica e del conte non fosse Angela Virginia, ma Pierina stessa. Ora sono in attesa di risposte dall’istituto, che conserva ancora gli abiti, i documenti e gli oggetti dei neonati abbandonati. Sarà un momento molto commovente». Del resto, ogni foglia dell’albero genealogico è anche un tassello di società lontane. Soprattutto nell’Ottocento, infatti, «le donne partorivano in forma anonima figli illegittimi o nati in famiglie numerose in difficoltà economiche. Ho compreso l’entità del fenomeno consultando gli atti di nascita dell’epoca: su otto neonati registrati in ogni pagina, la metà risultavano abbandonati, e non solo in posti sicuri, ma anche in luoghi inospitali come i cimiteri, dove non sopravvivevano». Per i figli di “m. ignota”, un’espressione che risuona familiare persino alle orecchie moderne, «gli istituti degli esposti hanno contribuito alla diminuzione del fenomeno» che rifletteva anche «una condizione terribile della donna. Se incinta e non sposata, infatti, diventava il bersaglio di un feroce stigma sociale». Anche i contadini non se la passavano bene. «Nell’Ottocento, i miei antenati erano poverissimi. Lavoravano la terra tra le paludi del Veneto, dove malattie come tifo e malaria li colpivano prima che raggiungessero i 50 anni». COLPI DI FORTUNA E IMMAGINAZIONE Un colpo di fortuna ha permesso a Depentor di ricostruire gli ultimi attimi di un altro antenato, Pietro, morto invece in circostanze sospette. «Da alcuni registri ingialliti è volato fuori un foglio di pergamena, così sottile che rischiava di rompersi al solo sguardo. Era un nulla osta alla sepoltura rilasciato da un ufficiale giudiziario. Pietro era infatti inciampato nei pressi di un carro carico di letame che gli aveva schiacciato la testa con le ruote, e il funzionario aveva appurato che si era trattato di un incidente», racconta. Nella ricerca genealogica, però, non tutto fila sempre liscio. «In un archivio ricco di documenti datati fino alla metà del Settecento, ho cercato informazioni sul mio sestavolo Giovanni. L’inchiostro era illeggibile e le pagine completamente bianche». Per proseguire il viaggio nel tempo occorrono allora tenacia, inventiva e immaginazione, anche a bordo di navi che hanno solcato le acque dell’oceano. «Nell’Ottocento, una parte della mia famiglia è emigrata in Brasile», racconta Depentor, che dopo la laurea in Scienze Politiche a Padova ha a sua volta peregrinato tra Parigi, Barcellona, Berlino e Nuova Zelanda. «Nelle liste dei passeggeri ho notato una ragazza, Marianna, che aveva appena 24 anni e viaggiava da sola, una circostanza inusuale per l’epoca. Forse stava raggiungendo i parenti, ma io me la sono raffigurata sul ponte in cerca di fortuna. Spero che sia riuscita a cambiare vita come desiderava». L’attività di districare i rami dell’albero genealogico «potrebbe sembrare arida, perché si basa su documenti e dati, ma non lo è. Io fantastico sull’abbigliamento, sul modo di parlare e sui gesti dei miei antenati», spiega l’autrice, che ricostruisce nella fantasia anche cascine e cortili che «ora non esistono più, perché sono diventati città». La spinta all’immaginazione scova poi nei volti e nei cuori sbiaditi di chi è stato le fossette e le anime dei discendenti. «A volte, i geni ritornano. Secondo la mia famiglia, io ho lo stesso carattere del bisnonno Camillo, che dopo la Prima Guerra Mondiale era andato a Roma in bicicletta per protestare perché aveva perso il lavoro dopo essersi rifiutato di iscriversi al Partito Fascista». I SEGRETI DEI CIMITERI Depentor passeggia tra le vite degli altri anche lungo i viali di cipressi ornati dalle sculture in pietra nei cimiteri, «che esploro per puro piacere, perché sono luoghi meravigliosi pieni di storia». La genealogista ha dedicato loro un libro, Immemòriam. I cimiteri e le storie che li abitano, e un podcast, Camposanto, dove ha raccontato l’amore contrastato di due giovani Romeo e Giulietta, Attilio e Italia, sepolti all’inizio del Novecento a Montevarchi, in Toscana. «Mi hanno colpita le due tombe vicine e la stessa data di morte, che non poteva quindi essere stata naturale. Grazie ai microfilm dei giornali dell’epoca, ho scoperto che i ragazzi si erano suicidati con il gas perché lei era povera e lui ricco, e la famiglia contraria alle nozze». Le anomalie hanno il potere di attirare lo sguardo di Depentor. «Su un’altra lapide ho individuato la foto post mortem di una donna e di un bambino», racconta. L’usanza di immortalare i defunti si era diffusa nei paesi anglosassoni in epoca vittoriana per ricordare le persone care, che spesso morivano ben prima di poter posare davanti alla macchina fotografica in rare e speciali occasioni. «Grazie alla scritta “per mano assassina”, ho scoperto che si trattava di un caso di femminicidio». CENT'ANNI DI SOLITUDINE E OLTRE La ramificazione dell’albero genealogico corre incessante. Dalla pubblicazione di Dinastia, Depentor ha già svelato altri misteri e ora indaga sul passato della bisnonna Maria Rosa, che si diceva fosse stata cresciuta dalle donne del vicinato dopo la morte per parto della madre. «All’inizio sembrava una leggenda priva di fondamento perché, come ho scritto nel libro, la mia trisnonna risultava ancora viva al momento del matrimonio della figlia. In seguito, però, un altro documento ha confermato la prima versione. Ho poi scoperto che Maria Rosa aveva avuto altre sorelle delle quali si sono perse le tracce, forse figlie di seconde nozze del padre». A poco a poco, la genealogista intravede nuovi orizzonti, molto simili alle fronde che la famiglia Buendía tesseva nel romanzo Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. «Alla faccia di quelli che dicono che la ricerca genealogica è noiosa, e invece è ricca di colpi di scena!».

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