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A Vicious Circle, Lee Bermejo: "Il lavoro più complesso della mia vita"

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Gabriele Lippi

Il disegnatore ospite del Comincon di Napoli per lanciare il primo volume della serie a fumetti realizzata con Mattson Tomlin. Un'opera in cui travalica i confini del suo stile per cimentarsi con altre tecniche. Mostrando l'inedità versatilità di tutta la sua straordinaria maestria artistica

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Due assassini, uno contro l’altro, in un inseguimento che attraversa secoli, millenni, ere della storia umana e terrestre. Parte da questa idea di Matson Tomlin A Vicious Circle, la serie a fumetti Boom Studios portata in Italia da Panini Comics (il volume 1 è appena uscito, 56 pagine tra bianco e nero e colore, in formato gigante 24.5x31.5, al prezzo di 15 euro). Ai disegni un Lee Bermejo come non lo avete mai visto, capace di spingersi oltre i confini del suo apprezzatissimo e riconoscibilissimo tratto, disegnando come non aveva mai fatto prima, mischiando stili diversi in rapida successione in un campionario già evidente dal primo volume. Bermejo è ospite del Comicon di Napoli per il lancio della serie e Sky TG24 lo ha raggiunto al telefono per parlare del suo ultimo lavoro.

Quando ho aperto il volume sono rimasto stupefatto. Era un Lee Bermejo che non avevo mai visto prima. È il lavoro più complesso che hai realizzato?
Adesso è tre anni e mezzo che ci sto lavorando sopra, quindi sì, è assolutamente il progetto più complesso da tutti i punti di vista, non solo dal lato tecnico. Ci vuole ricerca per ogni epoca, per i costumi e i dettagli. È più difficile di fare un fumetto su Batman.

 

L’incontro con Mattson Tomlin avviene in pieno lockdown via social. Come è scoccata la scintilla tra voi?
Jim Lee aveva condiviso qualcosa taggandolo e io l’ho scoperto così. Lui posta tantissimi fotogrammi di film, ma non le scene più note, ha un occhio molto particolare, e ho notato che abbiamo gli stessi gusti. Lui mi seguiva già, abbiamo cominciato a scriverci e chattare, ho scoperto che stava lavorando su The Batman con Matt Reeves, e visto che c’era un po’ anche del mio lavoro lì dentro abbiamo iniziato a parlarne. Ci siamo trovati subito e siamo diventati amici in poco tempo.

 

Come è stato lavorare con lui?
Molto bello. Lui viene dal mondo del cinema ma ha una grossa conoscenza di fumetti, aveva un modo di scrivere molto facilmente trasportabile al fumetto. Non c’è stata una fase in cui abbiamo dovuto imparare come adattare la sua scrittura, è venuto tutto abbastanza facile. E poi è una persona molto aperta, è stato facile collaborare con lui.

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A Viciuos Circle è una miniserie complessa, con più livelli di lettura, tematiche e archetipi. Inizia quasi come un fumetto storico sul segregazionismo e poi diventa improvvisamente uno sci-fi sui viaggi nel tempo. Qual è stata l’idea primaria?
Lavorando lui su The Batman mi aspettavo che avremmo fatto qualcosa sul personaggio, ma io ero stanco dei fumetti di supereroi e gliel’ho detto. Non è che non mi piacciono ma ne ho fatti così tanti che avevo voglia di cambiare. Lui mi ha parlato di tre idee, tra queste ce n’era una che partiva dalla premessa di due assassini che viaggiano nel tempo ogni volta che ammazzano qualcuno. Mi incuriosiva molto come concetto e abbiamo iniziato a svilupparlo.

 

L’idea di alternare stili grafici completamente diversi tra loro è venuta da te o è stata una richiesta di Tomlin?
Quella è stata una mia idea, anche perché a me piace cambiare qualcosa ogni volta che faccio un progetto, sennò mi annoio. Una volta decido di colorare, una volta di scrivere. Per questo progetto pensavo che, a livello di storytelling, sarebbe stato più bello per il lettore avere questo cambio visivo molto drastico al passaggio da un’epoca all’altra. E poi è un’opportunità per me di cambiare un po’, altrimenti se fai sempre lo stesso per 150 pagine e 3 anni di vita diventa un tunnel abbastanza lungo e scuro.

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Come ti sei sentito a uscire dalla tua comfort zone per sperimentare su altri stili grafici? Che effetto ti fa vedere quelle tavole?
All’inizio mi ha mandato in crisi, guardavo una cosa che non sembrava mia. Poi, verso la fine del primo volume, c’è questa sequenza in cui ho dovuto cambiare stile otto volte in due pagine. Lì ho cominciato a vederlo come immaginavo che lo avrebbe visto il lettore, a visualizzare quel senso che già conoscevo in teoria.

 

Di tutti gli stili che hai utilizzato, qual è quello che ti ha richiesto il maggior lavoro in termini di tempo e fatica?
La sequenza in bianco e nero ha un realismo estremo. Poi a me piace lavorare su un contrasto molto spinto. Qui ho dovuto abbassare il mio istinto di renderlo più cupo. Ho dovuto fare le cose in modo molto naturale, e anche disegnare quel bambino per me è stato difficile, perché non doveva essere solo realistico ma anche naturale.

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Ho letto che inizialmente pensavi di omaggiare, coi vari stili, i tuoi artisti preferiti, poi però hai cambiato idea. Però sono curioso di saperlo: chi erano questi artisti che volevi omaggiare? Io, per esempio, credo di aver visto un po’ di Quitely e qualcosa di mignolesco in alcune vignette.
Sì, loro assolutamente sì. Ma non volevo fare una cosa tipo cover band, sembrare uno che copia altri artisti. Volevo farlo in modo mia ma tenendo un forte cambiamento stilistico. Mi ricordo che all’inizio, parlando con Matson della sequenza con i dinosauri, ero totalmente convinto di me mentre dicevo: “Ora faccio Frazetta”. Quando ci ripenso mi viene da ridere da solo, è ridicolo. Nel terzo numero ho deciso di partire dal quadro di Manuel Luetze che ritrae George Washington che attraversa il Delaware, cambiandolo per ciò di cui avevo bisogno, e ci ho messo una mezza vita. Omaggiare certi artisti è proprio un lavoro assurdo, lui ci ha messo 4 o 5 mesi a farlo e io sto lì come un deficiente pensando di poterlo fare subito. Una bella lezione di umiltà ci vuole, ogni tanto.

 

Sono rimasto stupefatto dai livelli di iperrealismo che hai raggiunto nella prima parte del racconto, in quei volti, quei sorrisi, quelle lacrime. Come hai lavorato su quelle tavole? E perché hai scelto il bianco e nero per quella parte?
Un po’ come nel Mago di Oz, quando cominci col bianco e nero trasporti immediatamente la gente nel passato. E poi sapevo che quando avrei cambiato stile andando avanti nel tempo, l’arrivo del colore sarebbe stato molto d’impatto. Penso che quando cerchi di creare un linguaggio per il fumetto devi un po’ insegnare al lettore come leggere quel linguaggio. Pensavo fosse più facile farli iniziare dal bianco e nero per avere uno stacco così netto.

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La serie si fa notare anche per delle trovate grafiche particolari. Ne cito due: la doppia splash in cui il layout è segnato dalla linea di un encefalogramma che sembra dare il ritmo al susseguirsi delle emozioni ritratte e il modo in cui vengono raffigurate le uccisioni che sbalzano avanti e indietro nel tempo i due protagonisti della storia…
Anche lì si trattava di creare un linguaggio per ogni volta che c’era un omicidio e dovevo inventarmi qualcosa per semplificare il concetto. Dovevo dare l’idea del taglio nel tempo che si crea quando qualcuno viene ucciso, il passaggio da un’epoca all’altra.

 

Dove ci porterà questo circolo vizioso?
Nel secondo volume imparerete molto più di Thacker e capirete un po’ da dove viene e perché ha questo uomo incatenato nella sua cantina. Nel terzo, invece, finalmente si scopre molto di più di quell’uomo incatenato nella cantina. La storia si conclude conoscendo meglio le vite di questi personaggi. Si comincia con l’idea che Thacker sia un po’ il buono e Ferris il cattivo, ma non è detto che sia proprio così, il lettore potrebbe cambiare idea più di una volta.

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Mattson Tomlin e Lee Bermejo, A Vicious Circle vol. 1, Panini Comics, 56 pagine, cartonato bianco e nero e colore, 15 euro

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