Giulia Siviero: "Nel femminismo la pratica è imprescindibile"
Lifestyle ©GettyIl libro "Fare femminismo", in uscita oggi, ripercorre la storia delle lotte delle donne nel mondo: dalle piazze ai tribunali, dai gruppi di autoscienza in Italia negli Anni '70 al primo grande sciopero di Ni Una Menos in Argentina nel 2016. Il motore? La rabbia, che è "una forza trasformativa". L'autrice a Sky TG24: "Il caso Cecchettin ha fatto la differenza nel dibattito perché la sorella ha preso parola politica. Gli uomini? Serve una riflessione che parta da loro"
Trasformare il silenzio e la rabbia in azione, esporre i propri corpi nello spazio pubblico, occupare le aule di tribunale per mettere in discussioni le leggi, scioperare a braccia incrociate rivendicando l'uguaglianza. Sono solo alcune delle pratiche femministe che le donne nella storia hanno "messo in scena" in ogni angolo del mondo. A unirle, e ricordarle, un libro di racconti in uscita il 12 aprile, "Fare femminismo" (nottetempo edizioni), che ripercorre la storia delle lotte femministe nel mondo, dai primi gruppi di autoscienza in Italia negli Anni '70 al primo grande sciopero di Ni Una Menos in Argentina nel 2016 contro i femminicidi. "Parte dalle suffragiste e arriva fino ai giorni nostri e tocca anche una cartografia ampia, anche se non esaustiva, dei femminismi nel mondo", dice l'autrice Giulia Siviero a Sky Tg24. "Avevo il desiderio di lavorare sulle pratiche femministe, quelle che i movimenti più radicali si sono inventati durante la storia".
Partiamo dalla copertina. Che cosa racconta e perché l’hai scelta?
È l'immagine di una fotografa femminista venezuelana, Argelia Bravo. Rappresenta una madre incappucciata che allatta il figlio, come se nutrisse il cambiamento. Ed è proprio il senso del libro.
Il titolo include il verbo "fare". Scrivi che "la rinuncia ad agire è una delle tattiche più efficaci per neutralizzare i femminismi". Il femminismo è necessariamente azione?
Sì, il femminismo nasce proprio dall'unione del pensiero e delle parole con la pratica, che è imprescindibile. Infatti vivo con una certa difficoltà certi femminismi di oggi che usano moltissimo i social, facendo pur un ottimo lavoro di divulgazione: quello che viene meno è proprio il lavoro politico in presenza. L'esserci, l'occupare lo spazio pubblico con il corpo: il femminismo si distingue da tutti gli altri movimenti proprio perché mette insieme la teoria alla pratica. Quindi sì: "fare" è un po' la parola centrale del libro, intesa appunto come pratica.
Tra quelle che hai raccontato, c'è una storia poco nota che merita di essere conosciuta?
Forse quella più significativa - e ancora molto attuale - è quella di un gruppo di donne americane che frugando nei negozi per acquari hanno adattato un dispositivo per l'autogestione dell'aborto, prima che diventasse legale. E oggi negli Stati Uniti molte donne sono tornate a parlare di questo dispositivo, attraverso delle reti clandestine che stanno stanno pensando di reintrodurlo per superare i limiti legislativi che gli Usa stanno imponendo di nuovo sul tema dell'aborto.
Nel giugno 2022 la Corte suprema Usa ha infatti abolito la sentenza sul diritto all'aborto, facendoci rendere conto di fatto che nessun diritto è acquisito?
Esatto, i diritti non sono mai per sempre: Invece credo che una parte di femminismo contemporaneo si sia ammalato un po' di "dirittismo" puntando molto sulla richiesta allo Stato di nuovi diritti, come se costituissero necessariamente una garanzia, una banca dati sul futuro. Il femminismo storico ci insegna invece che non è così.
Capita spesso che a noi donne gli uomini dicano "sei sempre arrabbiata, perché non sorridi di più?", come se la rabbia fosse sinonimo di un sentimento negativo, che non deve appartenere alle donne. Scrivi che la rabbia è una forza trasformativa: è il motore del femminismo?
Penso che sia una delle leve politiche del femminismo, senza dubbio fondamentale. Anche perché, appunto, la rabbia è stata risignificata dal femminismo rispetto invece a un paradigma educativo molto differente tra bambini e bambine. Nei maschi la rabbia rinforza la mascolinità, mentre nelle femmine è ancora qualcosa che va in qualche modo contenuta perché devono prevalere il decoro, il sorriso, l'addomesticamento dei sentimenti. Penso che ci indigniamo troppo e ci arrabbiamo molto poco.
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Nello scorso 25 novembre, poco dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, le piazze italiane si sono riempite per protestare contro la violenza sulle donne. Per settimane il dibattito è entrato nelle strade, negli uffici, nelle scuole. È stato uno spartiacque?
Se sia stato uno spartiacque ancora non so dirlo, vedremo come proseguirà il lavoro collettivo. Sicuramente però quello che è cambiato nel caso di quel femminicidio - ma ricordiamo che è uno tra i moltissimi - nei giorni subito seguenti la cosa che è stata diversa è che la sorella di Giulia Cecchettin ha preso parola politica portando il femminicidio della sorella su un piano differente, nominando le mancanze e la violenza strutturale che sta alla base di ogni femminicidio, al di là dei singoli casi.
"Non tutti gli uomini" è la replica che spesso ci sentiamo fare dai maschi che si sentono chiamati in causa, bersagliati, quando si parla di violenza maschile sulle donne. Non tutti, ma comunque tanti, troppi, come ci insegna la cronaca. Li includiamo abbastanza all'interno del dibattito femminista?
È sicuramente vero che gli uomini nella cosiddetta cultura dello stupro hanno un ruolo, e forse questo ruolo andrebbe innanzitutto riconosciuto. D'altra parte credo che non sia compito del movimento femminista accompagnare gli uomini una presa di coscienza, che deve partire sempre da sé. Penso che oggi anche grazie al femminismo intersezionale, che interseca anche altre lotte con altre soggettività, gli uomini possano e debbano partecipare a questo percorso, senza rinunciare però a una riflessione che parta realmente da loro.