L'autore sardo torna in libreria con "La mia Babele", un memoir in cui racconta anche cosa significa far rivivere il testo in un'altra lingua e dunque in un altro contesto. E durante "Incipit", la rubrica di libri di Sky TG24, dice: "Mozart è meraviglioso anche se suonato da un bambino di seconda elementare con un flauto di plastica"
Tradurre significa tradire, il refrain si ripete da decenni. Ma è davvero così? E soprattutto: cosa significa far rivivere il testo in un'altra lingua (e dunque in un altro contesto)? La nuova puntata di "Incipit" è dedicata a queste domande. Ospite, lo scrittore Marcello Fois, da poco tornato in libreria con "La mia Babele", un memoir pubblicato da Solferino (pp. 144, euro 16).
“In una buona traduzione - osserva - cambiano e si adattano questioni abbastanza ininfluenti: modi di dire, punti di vista, ma che quell’attitudine, la mentalità narrativa che contraddistingue un grande scrittore, è soverchiante rispetto a qualunque arbitrio”.
È per questo che, racconta Fois in questa intervista, "i grandi scrittori reggono persino brutte traduzioni, esattamente come i grandi musicisti reggono le brutte esecuzioni. Mozart è meraviglioso anche se è suonato da un bambino di seconda elementare col flauto di plastica. È sempre una questione di qualità intrinseca e quando c'è questa qualità il pessimo traduttore si riesce ad aggirare, così come si riesce a scavalcare paradossalmente anche il traduttore soverchiante".
"Il caso di Moby Dick nella traduzione di Cesare Pavese è significativo - osserva sempre Fois - quando una la legge, si imbatte in una specie di animale mitologico, che non è Melville e non è Pavese, ma è Melville e Pavese insieme. E lo stesso accade a Jean Giono quando traduce quel capolavoro in francese. Moby Dick ha questo destino di traduttori esorbitanti, ma non mi pare che ne abbia mai risentito".