Michele Mari: “Ogni scrittore è un ventriloquo, copiare significa anche alfabetizzarsi”

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Filippo Maria Battaglia

Uno dei più noti e apprezzati autori italiani torna in libreria con "Le maestose rovine di Sferopoli", una raccolta di racconti pubblicata da Einaudi. E durante "Incipit", la rubrica di libri Sky TG24, dice: "Senza partire dalle voci altrui uno scrittore difficilmente potrà trovare la propria"

L'ultima raccolta di racconti di Michele Mari si intitola "Le maestose rovine di Sferopoli". Einaudi, che la pubblica, nella prima riga della bandella informa che tra quelle rovine “ogni ossessione è già stata catalogata, e qualsiasi mito o superstizione trova conferma”. Quest'intervista parte allora da qui, dall'ossessione e dalla sua importanza. "È l’alimento e la benzina, il legno e il fuoco - dice Mari durante "Incipit", la rubrica di Sky TG24 dedicata ai libri (qui le puntate precedenti) - Per me è stata una spinta quasi inevitabile allo stile, al trattamento retorico di quanto nella vita c’è di esasperante, deprimente, limitante: un magma dal quale, con il debito raffreddamento, si riesce a distillare ciò che si vuol dire in maniera più alta e possibilmente anche ironica".

 

E il sogno invece? Che ruolo ha? 

Nella mia pagina è raramente un’evasione. È  piuttosto una codificazione, una formalizzazione delle proprie angosce, qualcosa in cui le ossessioni vengono preformate e stilizzate preliminarmente, offrendo all’autore una sorta di repertorio dei temi. Come se nottetempo lo scrittore si portasse avanti rispetto al proprio lavoro.

 

In un racconto di questo libro, “Le fonti del mondo”, lei alterna citazioni di grandi autori con alcuni brani della canzone “Il mondo” di Jimmy Fontana, prima di puntualizzare che quelle stesse citazioni sono in realtà il frutto della sua fantasia. Per lei, uno scrittore è più un ventriloquo o un falsario?

Entrambe le cose. In questo caso, dovendo scegliere, direi ventriloquo perché il termine è più tecnico e non ha la tara limitativa di "falsario". Penso che qualsiasi scrittore, almeno inizialmente e in modo larvale, sia un ventriloquo, e che lo sia da lettore così come da commentatore. Solo successivamente si farà una propria voce e la modulerà, ma senza partire dalle voci altrui difficilmente potrà trovare la propria. 

A proposito: in un altro racconto di questo libro, "Tema in III C", un insegnante decide di far scrivere delle storie paurose ai propri allievi. Uno di loro decide di imitare il proprio compagno e non finisce bene: imitato e imitatore si beccano un’insufficienza. Scrivere è sempre imitare? 

No, non sempre. Penso però che  una quota manieristica sia inevitabile. Copiare significa alfabetizzarsi, acquisire una retorica, una strumentazione, un repertorio, tutte cose che purtroppo oggi sono sempre più dimenticate e frettolosamente archiviate come un onere faticoso e una limitazione delle proprie libertà espressive.

 

E allora come si incunea la sorpresa? 

Stabilito che non necessariamente ci deve essere una sorpresa, è anche vero che spesso la natura stessa del microracconto la richiede. Può essere legata a un rovesciamento dei ruoli, alla valorizzazione di una pregnanza etimologica, alla scoperta di qualcosa che è nascosto nelle cose o nelle parole e che nessuno di noi ha mai sospettato.

 

Lei ha scritto romanzi e racconti. Qual è la differenza più segnante?

Mah, la scrittura del racconto è più nervosa e più capricciosa, ed è molto legata all’ispirazione del momento e a una certa trance performativa. Nella mia esperienza il racconto è una cosa che viene pensato la mattina e concluso entro ventiquattro ore, indipendentemente dal fatto che sia molto breve o di media lunghezza. Il romanzo no: richiede una sorta di consuetudine con l’ambiente e con i personaggi, e quindi ha una componente anche inerziale.  È appagante, perché crea dipendenza e assuefazione nello scrittore (come poi si spera nel lettore), però non ha le punte né lo scintillìo che può invece dare alla sensibilità dell’autore un racconto.

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Non è dunque uno scrittore che riscrive?

No,  scrivo abbastanza di getto e poi mi limito a un'operazione di redazione, di maquillage. Le mie revisioni sono davvero delle ripuliture leggere. Se lei invece intende riscrittura come rifacimento di un libro passato, questo nel caso mio è avvenuto solo una volta, con il mio romanzo d’esordio “Di bestia in bestia”, che ho ripubblicato energeticamente e snellito dopo oltre trent’anni.

 

E con gli altri libri? Che rapporto ha una volta pubblicati?

In genere non li rileggo più, se non per motivi pratici redazionali. Sono in effetti sempre un po’ in imbarazzo a essere il lettore di me stesso e poi sento fin dal momento della pubblicazione che il libro diventa una cosa oggettiva,  va per il mondo e quindi in un certo senso mi si sottrae. Questo vale soprattutto per la mia prima raccolta di poesie ("Cento poesie d'amore a Ladyhawke", ndr) di cui il pubblico s’è letteralmente impossessato facendone ogni uso possibile e quindi, a maggior ragione, io me ne sento spossessato.

 

Altro racconto del libro, il titolo stavolta è "Sghru". C’è uno studente universitario alle prese con un esame che si sta rivelando molto complicato: la bocciatura è pressoché certa fino a quando decide di tradurre un’ode in una lingua incomprensibile ma così musicale da conquistare il professore. Tradurre non significa per forza tradire? 

No. Il traduttore ha sempre l’illusione di ricreare, in altre modalità e in altra scala, l’originale. Non voglio certo dire che le traduzioni possano essere superiori al testo, ma certamente ci dialogano e, soprattutto, dialogano con le altre traduzioni del proprio tempo. 

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Mi fa un esempio a partire da un aggettivo?

Forse il celebre “funesta” di Vincenzo Monti che accompagna l’ira di Achille. La protasi dell’"Iliade" è sempre stata un campo di battaglia per filologi e poeti, e tuttavia nessuno ne è uscito indenne. Monti, che non sapeva il greco, è riuscito nella paradossale impresa di darci la più bella traduzione dell’"Iliade". Quel “funesta”, che è stato criticato non tanto in se stesso quanto per la posizione che ha nella frase e nella sintassi scelta da Monti, mi sembra che possa valere  da usbergo per tutti i traduttori, un po’ nel segno della protezione che si favoleggia venga da San Girolamo traduttore della Bibbia.

 

In uno dei primi racconti di questo libro, "Argilla", lei scrive che "ci sono individui nei quali l’odio produce una sterile ottusità, bruciando ogni risorsa; e che invece altri proprio alle fonti dell’odio riescono ad attingere una fantastica idea". Vorrei chiederle tre libri che ne sono la conferma.

Ce ne sono molti. Molti di più, a dire il vero, per la seconda categoria, e cioè per quei personaggi che dall’odio hanno attinto idee e energie: penso al "Conte di Montecristo" di Dumas, o al "Corsaro Nero" di Salgari, o ancora al "Capitano Nemo" di Verne, e la lista potrebbe proseguire a lungo. Fra i primi mi viene in mente invece uno dei personaggi più tragici e insieme più comici della nostra letteratura, e cioè Gonzalo Pirobutirro d'Eltino, il protagonista della "Cognizione del dolore" di Gadda che odia tutti: il mondo, i parrocchiani, l’architettura brianzola, e sprofonda così in una nevrosi che è ottundimento. Così, alla fine, la sua ricetta è quella di strafogarsi di aragoste e di vini e di vivere in una sorta di ottusità anafettiva e anestetizzata.

 

E oltre a Gadda?

Non lo so, perché in questi casi si rischia sempre di far torto al personaggio e alla nobiltà delle sue aspirazioni. Un personaggio al confine tra sublimità e ottusità è Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, che si impunta per un puntiglio minimo al punto da mettere la Sassonia a ferro e a fuoco, ottenendo alla fine soddisfazione, e verrebbe da dire appunto ottusamente, rimettendoci la vita e la famiglia.

 

Michele Mari è nato a Milano nel 1955. Ha scritto molti libri (romanzi, racconti e poesie) e ne ha tradotti molti altri. Coi primi ha vinto alcuni dei principali premi italiani (il Mondello, ad esempio, il Grinzane e il Brancati). Ha insegnato all'Università statale di Milano e giocato nella nazionale italiana degli scrittori (l'Osvaldo Soriano Football Club). È considerato un autore di culto.

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