Inverno demografico, come sarà il mondo del lavoro nel 2050?

Mentre la natalità continua a scendere, in Italia nel 2024 il numero di figli in media per donna – il cosiddetto tasso di fertilità – ha toccato un nuovo minimo storico all’1,18. Sono i dati rimbalzati su tg, quotidiani e socialnetwork negli ultimi giorni. Ad averli comunicati, come fa a cadenza periodica, è stato l’Istituto Nazionale di Statistica. Negli anni Duemila abbiamo toccato il picco di nascite nel 2008 - anno in cui sono nati 570mila bambini - nel 2024 invece abbiamo appena sfiorato quota 370mila. Significa che in una manciata d’anni il calo è stato del 35%, la perdita complessiva è stata di 270mila nascite. Prosegue così il trend negativo che, stando ai dati provvisori per il 2025, si estenderà anche all’anno in corso. Da gennaio a luglio le nascite sono state 13mila in meno rispetto allo stesso periodo del 2024, in calo del 6.3%. Siamo in pieno inverno demografico: come questo fenomeno impatterà il mercato del lavoro da qui al 2050? Culle vuote, impatto sul mercato del lavoro È sempre l’Istat, su elaborazione delle proiezioni della Ragioneria Generale dello Stato, a fornirci alcune previsioni – tutt’altro che rassicuranti – sul mondo del lavoro che ci aspetta. Le stime sono relative al 2050 e le conseguenze del forte calo della natalità sono evidenti nella piramide demografica del nostro Paese. Tra 25 anni la rappresentazione statistica della popolazione, se consideriamo la fascia di persone attive cioè che lavorano o cercano un’occupazione, assomiglierà molto più ad un imbuto. È una stima, certo, ma in statistica un orizzonte temporale di 25 anni equivale spesso a certezza e le possibilità che si possa davvero invertire la rotta, secondo gli esperti, sono purtroppo molto basse. Aumenterà cioè il numero di persone over 70, mentre la fascia di popolazione in età da lavoro compresa tra i 15 e i 64 anni diminuirà di 7,2 milioni. La quota di attivi scenderà meno, di circa 3,2 milioni di unità, per una semplice ragione: lavoreremo più a lungo. Mercato del lavoro più vecchio Una delle conseguenze dell’inverno demografico e dell’allungamento dell’aspettativa di vita sarà un inevitabile significativo incremento della partecipazione al mercato del lavoro in età avanzata. Il tasso di attività per i 65-74enni passerà dall'attuale 11% al 16% nel 2050. Ma cosa vuol dire avere un mercato del lavoro sempre più vecchio? Quali saranno gli impatti sulle imprese e sulla loro produttività? Lo abbiamo chiesto a Francesco Seghezzi, presidente di Fondazione Adapt . “Gli effetti sulla produttività di una forza lavoro più anziana sono ambivalenti. Da un lato risulta più complesso svolgere compiti fisici, dove sforzo e fatica vengono resi più difficili dall’età, così come non è sempre semplice rimanere al passo dell’innovazione e rinnovare le proprie competenze oltre una certa età; dall’altro c’è il peso positivo dell’esperienza, di quel saper fare e essere che può risultare utile alle imprese. Quello che conta, però, è far sì che le aziende evolvano i modelli organizzativi per rispondere a esigenze inevitabilmente nuove. Servono sin d’ora maggior flessibilità oraria se ci sono malattie croniche e negli ultimi anni di lavoro, modelli di staffetta generazionale tra giovani e anziani all’interno delle imprese, flessibilità delle mansioni per alleggerire quelle fisiche negli ultimi anni di attività”. Le politiche necessarie Aumenterà dunque l’apporto della popolazione anziana al mercato del lavoro, mentre il tasso di attività tra i 15 e i 64 anni in Italia resta e probabilmente resterà uno dei più bassi tra i grandi Paesi d’Europa. Oggi siamo al 66,6%. Nel giro di 10 anni il dato è aumentato e secondo le stime Istat nel 2050 arriverà a superare il 73%. Bene, ma non abbastanza per uguagliare gli altri Stati europei. Spagna e Francia sono al 74,5%, la Germania è sin d’oggi sopra l’80%. “In Italia abbiamo oltre 12 milioni di persone in età da lavoro inattive, ossia che non lavorano e non cercano lavoro, un tasso di occupazione femminile ampiamente sotto la media europea, un’occupazione giovanile che stenta a risalire oltre ai livelli del 2008, una forte disparità territoriale e il Mezzogiorno molto indietro rispetto al Nord. Tutti questi elementi – commenta Seghezzi - ci dicono che c’è margine per alzare i livelli di occupazione e spiegano perché abbiamo un tasso di attività più basso dei grandi Paesi Ue. C’è anche dell’apporto positivo che i lavoratori stranieri possono dare, se vengono sviluppate vere politiche di integrazione che non creino ghetti e sacche di irregolarità che non aiutano il mercato del lavoro”. Tecnologia, opportunità o rischio? In questo contesto e in questa prospettiva quali impatti avranno AI e tecnologia? Da quando abbiamo iniziato a parlare di intelligenza artificiale il timore diffuso, all’inizio sussurrato e poi sbandierato, è stato quello di aver individuato un rivale capace di farci le scarpe e di rubarci il lavoro. Una intelligenza che è artificiale sì, ma molto reale nel grado di precisione e rapidità di svolgimento di alcune mansioni o nella capacità di analisi dei dati. Secondo Seghezzi, è giusto osservarne con attenzione gli sviluppi, ma non dovrebbe essere la tecnologia a preoccuparci: “Le previsioni demografiche e l’ondata di pensionamenti della generazione dei baby boomer ci dicono che occorrono soluzioni nuove per sostituire i lavoratori che non ci saranno. Se qualche tempo fa la paura principale era quella di non avere abbastanza lavoro perché rubato dalla tecnologia il rischio adesso è l’opposto: non avere abbastanza lavoratori”. Formazione e riqualificazione: la sfida In definitiva, occorre cambiare il paradigma rispetto al lavoro. Conclude il presidente di Fondazione Adapt: “Oggi viviamo una crisi dell’offerta, con meno lavoratori disponibili rispetto a quanti ne servono e una popolazione sempre più anziana. L’urgenza è quella di concentrarsi molto sull’emersione dell’inattività e sulla sostenibilità del lavoro in età matura, tutto questo ha nella formazione e nella riqualificazione professionale uno strumento fondamentale sul quale occorre investire”. La grande sfida è “mettere in condizione”. Un passo importante cioè deve arrivare dalla politica, che ha il dovere di facilitare le imprese nell’adozione di modelli organizzativi nuovi. Le aziende a loro volta hanno il compito di consentire ai lavoratori più difficilmente integrabili, perché con esigenze diverse , di svolgere al meglio la propria mansione. Avremo forse un mercato del lavoro inclusivo per necessità, ma rispettoso dei bisogni solo per scelta.

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Irene Elisei