Vale davvero la pena di lavorare in editoria? Dipende...

Circa il 40% delle persone che lavorano nel settore dell’editoria in Italia spesso lo fanno nel weekend: 3 su dieci sono inquadrate come partita IVA e lo stipendio medio è pari a 17.582 euro. Questi sono alcuni dei principali dati che emergono da “Vale davvero la pena di lavorare in editoria?“, il report realizzato da Redacta, un gruppo di professionisti e professioniste editoriali nato nel 2019 all’interno di Acta, l’associazione sindacale che dal 2004 permette alle persone freelance in Italia di fare rete e portare avanti battaglie comuni. La ricerca, realizzata tra giugno e settembre 2023, fotografa le condizioni di lavoro precarie di una fascia della popolazione che, solo nella metà dei casi, è economicamente autonoma: oltre un terzo, infatti, riceve supporto da partner, famiglia o amici per sostenere le spese e continuare a lavorare nel settore. Solo 2 persone su 10 lavorano come dipendenti in editoria Il questionario di Redacta ha raccolto 837 risposte, ridotte a 825 dopo le operazioni di pulizia dei dati. Più di un terzo dei rispondenti ha tra i 29 e i 35 anni e quasi la metà non supera i 35 anni complessivi; solo l’11,5% ha più di cinquant’anni. A livello di genere, prevalgono nettamente le donne , mentre gli uomini si fermano al 19,3%; un 4,4% non si riconosce nelle categorie binarie o preferisce non rispondere. Il profilo si completa con altri due tratti distintivi: un livello di istruzione molto elevato e una forte concentrazione geografica. Più di un terzo dei rispondenti risiede in Lombardia, sede dei principali gruppi editoriali, seguita da Lazio, Emilia-Romagna e Piemonte. Tre persone su quattro lavorano in più ambiti editoriali, spesso contigui, e raramente si limitano a una sola mansione: oltre il 40% ne dichiara almeno due, e più di un quarto ne svolge tre o più. Tra chi ha partecipato, oltre la metà lavora esclusivamente in editoria, mentre un ulteriore 12,8% ne ricava comunque più della metà del reddito complessivo. Per il restante 31%, invece, il settore editoriale resta un’attività secondaria. Sul piano contrattuale, il lavoro in editoria si conferma frammentato e instabile. La modalità più diffusa è quella della partita IVA, che riguarda un terzo delle persone rispondenti . Seguono i contratti da dipendente a tempo indeterminato e la cessione di diritti d’autore, spesso utilizzata per le attività autoriali come traduzione e scrittura. L’analisi incrociata con l’età evidenzia alcune tendenze rilevanti. Gli stage e gli apprendistati, teoricamente pensati come contratti di ingresso, non riguardano soltanto chi muove i primi passi: quasi un quarto degli stage è affidato a persone tra i 35 e i 39 anni, mentre metà degli apprendistati coinvolge professionisti già trentenni. Anche la mansione influenza il tipo di inquadramento. Il lavoro dipendente stabile si trova soprattutto nei ruoli di direzione, coordinamento e staff , mentre la partita IVA prevale in redazione, grafica e art direction. Per le attività autoriali, la cessione di diritti d’autore resta la formula più comune, seppure affiancata da partite IVA e prestazioni occasionali. In media, chi opera nel settore lavora poco meno di 43 settimane all’anno per circa 39 ore settimanali. L’organizzazione del tempo non è però uniforme: il 15% di chi lavora principalmente in editoria dichiara di lavorare di notte, con una maggiore incidenza tra grafici e chi si occupa di fumetti e giochi. Il fine settimana non rappresenta una pausa per la maggioranza, che dichiara di lavorare spesso o sempre anche il sabato e la domenica, in particolare nelle attività legate alla cessione di diritti d’autore. Quasi la metà, infine, supera regolarmente le otto ore al giorno, soprattutto chi si occupa di editing, diritti o marketing e vendita. Metà del campione non è economicamente autonomo Nel 2023 il guadagno netto medio annuo derivante da attività in questo settore è stato pari a 17.582 euro. Una cifra che, pur variando in base al tipo di contratto e alla mansione, risulta in molti casi insufficienti a garantire autonomia economica: soltanto la metà delle persone intervistate dichiara infatti di riuscire a mantenersi con il proprio lavoro, mentre un terzo riceve un sostegno diretto da partner, famiglia o amici. Le disuguaglianze interne al settore si riflettono anche dal punto di vista di genere: le donne guadagnano in media il 18% in meno rispetto agli uomini, sia per compensi orari più bassi, sia per un minore monte ore lavorato. Sono inoltre più frequentemente costrette a integrare il reddito con il contributo di partner o familiari, e meno spesso possono contare su entrate alternative non legate al lavoro. Questo si traduce in una posizione di maggiore vulnerabilità economica, anche all’interno dei nuclei familiari eterosessuali, dove il contributo femminile rimane mediamente più basso. In generale, il principale nodo critico individuato da chi lavora in editoria è proprio quello dei bassi compensi: oltre la metà delle persone intervistate ha attribuito a questo problema il punteggio massimo di gravità. Accanto alla questione economica emergono anche altre difficoltà strutturali, come la necessità di affrontare urgenze frequenti, la forte concentrazione del lavoro in alcuni periodi dell’anno e le conseguenti difficoltà di conciliazione tra vita privata e professionale. Rilevante è anche la percezione di scarse opportunità di crescita professionale, segnalata dal 45% del campione. La gratificazione maggiore, invece, riguarda il contenuto del lavoro: oltre la metà del campione si dichiara molto soddisfatta sotto questo profilo e apprezza la flessibilità di luoghi e tempi. Di fronte a questi dati, vale davvero la pena di lavorare in editoria? La risposta di Redacta è: dipende. Dipende dalle possibilità economiche di partenza, necessarie per affrontare master e corsi di specializzazione, ma anche per aiutare nei momenti di difficoltà. Dipende dalla volontà di trovare un compromesso tra vita professionale e personale. E dipende, infine, come si legge nel report “quanto a lungo la passione per questo lavoro riuscirà a far ignorare a una persona frustrazione e precarietà”.

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Roberta Cavaglià