È colpa dei giovani o delle imprese se i diplomati italiani non trovano lavoro?

La scuola, da manuale, avrebbe il compito di istruire, educare e formare i propri studenti. In altre parole, non solo di aiutarli a sviluppare competenze in varie discipline, ma anche di guidarli nella costruzione di una personalità e di una coscienza da cittadini. Perciò, non è banale – ed è discusso da decenni – che tra i primi intenti di una buona educazione scolastica vi sia l’inserimento degli alunni nel mondo del lavoro. Che in Italia, a prescindere dal dibattito, si tratta di un traguardo lontano dall’essere raggiunto, come certificano i dati Istat. Nel 2023, gli ultimi disponibili, il tasso di occupazione dei 20-34enni che posseggono il diploma come più alto titolo di studio, a tre anni dal conseguimento, si fermava al 59,7%. Un numero in vertiginoso aumento rispetto al 49,9% del 2021, ma molto più basso del 78,1% della media europea. In Germania, dove l’istruzione tecnica e professionale prosegue anche a livello terziario con le Fachhochsculen , si raggiunge il picco di 89,6% di occupati post-diploma. I lavori più richiesti Uno dei primi motivi del ritardo italiano è da cercare nel cosiddetto skill mismatch, ovvero la discrepanza tra le abilità richieste da chi offre lavoro e le competenze di chi ne fa domanda. Una differenza che, secondo Unioncamere, sarebbe costata all’Italia 44 miliardi di euro solo nel 2023. Non a caso – rileva sempre Unioncamere – alcune dei professionisti più difficili da trovare lavorano in ambiti specializzati come l’ingegneria elettronica, la metallurgia o la pedagogia per l’infanzia. Diverso è il discorso per gli addetti alla ristorazione e al turismo, la cui manodopera è carente soprattutto nel periodo estivo, per i quali la retribuzione è ben al di sotto della media italiana: 26.808 euro lordi annui contro gli oltre 37mila di un dipendente medio. “I salari non sono altissimi in questi settori – spiega Diego Montrone, presidente di Galdus Formazione, che da anni si occupa di far incontrare studenti e imprese italiane – ma i giovani non pongono più la retribuzione al primo posto tra le loro esigenze. Oggi le aziende dovrebbero essere più brave a costruire ambienti stimolanti, in cui si possa imparare continuamente”. Ripensare il lavoro Sperimentare la professione in laboratori, incontrare i datori di lavoro e scoprire le competenze da poter sviluppare nei mesi, o anni, di impiego. È questa la formula di Diego Montrone, e del suo hub JoinUs, per far incontrare imprese e studenti. “A volte ho notato pregiudizi radicatissimi da parte dei giovan – spiega a Sky tg24 Insider – Il cameriere, ad esempio, viene percepito come un lavoro che sta un gradino al di sotto della schiavitù, ma non è così. Credo che un periodo di lavoro ‘al pubblico’ farebbe bene a tutti i giovani per sviluppare soft skill di empatia, umanità e organizzazione che poi possono essere spese anche in altri impieghi”. JoinUs, da novembre 2024, ha organizzato 120 eventi di orientamento coinvolgendo oltre 1700 studenti e formando circa 160 docenti. “D’altro canto, anche le imprese devono stare attente a cosa chiedono i giovani – continua Montrone – Devono ripensare il lavoro secondo criteri più stimolanti. Resto sull’esempio del cameriere: un’azienda che conosco ha sviluppato un ponte tra l’impiego nella ristorazione e la neuroscienza, mettendo a punto sistemi che studiano le reali percezioni dei clienti. Così, il dipendente si trova a indagare come un certo piatto o una certa luce convinca gli avventori a godersi una buona serata. Questo è un approccio che convince molti giovani ad accettare l’impiego”. Orientamento verticale Secondo Montrone, non basta mettere studenti e imprese nella stessa stanza per risolvere un problema che chiama in causa l’universo scolastico tout-courts. Solo in Lombardia, dove ha sede JoinUs, la dispersione scolastica coinvolge circa 260mila studenti. A questi si aggiungono gli alunni che, dopo aver frequentato uno o più anni di scuola superiore, si accorgono di aver scelto il percorso sbagliato e cambiano rotta. “I giovani sono anche il frutto di una serie di tentativi sbagliati. Perciò, l’orientamento dovrebbe essere un’attività che accompagna sempre ogni allievo e lo aiuta a capire quali sono i suoi desideri e le sue propensioni, che poi impiegherà anche nel mondo del lavoro”. In gergo scolastico, si definisce ‘orientamento verticale’: in pratica, si tratta di un’attenzione continua allo sviluppo, da parte degli studenti, di un’attività di autovalutazione. Uno sforzo, richiesto ai docenti dallo stesso ministero dell’Istruzione, per evitare di affidare le scelte degli alunni ai soli test – spesso a crocette – distribuiti al termine di ogni percorso scolastico. “Capita spesso, tra gli studenti che incontriamo – conclude Montrone –, che si rendano conto di aver investito soldi e tempo a coltivare qualcosa che non ha nulla a che fare con la loro soddisfazione. È normale che, in questi casi, i ragazzi debbano ri-orientarsi, ma finché continueremo a pensare questa dinamica in termini di ‘successo’ e ‘fallimento’ non cambierà niente”.

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