Caccia di sesta generazione, perché l’Europa rischia di restare a terra

La tensione nei cieli europei rimane massima, dopo lo sconfinamento dei droni russi. E mentre la Nato prepara le contromisure per il presente, la corsa per il futuro dell’aviazione militare è ormai avviata. Una corsa che l’Europa rischia di correre puntando su due cavalli diversi, piuttosto che concentrare gli sforzi su una singola piattaforma di sesta generazione. Da un lato infatti c’è il GCAP , che vede coinvolti Regno Unito, Italia e Giappone; dall’altro l’FCAS , sviluppato da Francia, Germania e Spagna. I due velivoli dovranno sostituire Eurofighter e Rafale, la cui vita operativa si esaurirà nella seconda metà del secolo. E nel frattempo le altre potenze, Stati Uniti e Cina su tutte, corrono. Il nodo europeo è innanzitutto politico-industriale: chi guida, chi possiede la proprietà intellettuale, come si dividono lavoro e ricadute. Il progetto franco-tedesco-spagnolo costerà oltre 100 miliardi di euro e promette un “sistema di sistemi”: un nuovo caccia connesso a sciami di droni controllabili direttamente dal pilota con il supporto dell’intelligenza artificiale e collegato a tutte le altre piattaforme in campo, terrestri e navali. Ma i rapporti tra Parigi e Berlino restano tesi: l’estate ha visto richiami pubblici al rispetto degli accordi e frizioni sull’assegnazione delle fasi chiave del programma. L’azienda francese Dassault richiede infatti la leadership del programma, ma i tedeschi frenano e intendono mantenere rapporti paritari. I vertici industriali di Parigi hanno fatto intendere che la Francia “può costruire da sola” un caccia di nuova generazione, come avvenuto con il Rafale. Le prossime settimane saranno cruciali per capire se l’FCAS ha ancora un futuro. Sul binario parallelo, il GCAP è partito con un vantaggio organizzativo: la convergenza tra il programma britannico e quello giapponese, con l’Italia come partner di primo livello, ha prodotto una governance più snella e un calendario credibile. L’obiettivo di mettere in servizio i primi esemplari entro il 2035 è ambizioso ma resta realistico. La joint venture è stata formalizzata in estate, e il lavoro di sviluppo è ora in piena fase operativa. Anche se il dialogo tra i partecipanti non è sempre semplice: il ministro Crosetto in primavera aveva chiesto all’inglese Bae Systems di “ridurre gli egoismi” e di condividere la tecnologia necessaria a sviluppare il progetto. Resta però l’incognita dei partecipanti: se il progetto dell’FCAS dovesse implodere, il GCAP potrebbe accogliere tedeschi e spagnoli per costituire un vero player europeo. Anche l’Arabia Saudita è apparsa interessata a entrare nel progetto. Ma da Tokyo sono filtrati dubbi sulla possibilità di rispettare la milestone del 2035 se fossero coinvolti altri partner, con l’ipotesi di soluzioni ponte per coprire eventuali slittamenti. Perché i tempi contano? Perché fuori dall’Europa la corsa ai velivoli di sesta generazione non aspetta. Negli Stati Uniti la partita del successore dell’F-22 è entrata nella fase esecutiva: a marzo è stata assegnata a Boeing la commessa per lo sviluppo dell’F-47, il caccia americano che dovrà operare in squadra con droni autonomi. Il primo volo è programmato per il 2028, ben prima delle ambizioni europee. Per quanto invece riguarda la marina, il Pentagono aggiudicherà a breve il costruttore del nuovo caccia F/A-XX, che sarà imbarcato sulle portaerei. Il gruppo americano Northrop Grumman appare il pole position per l’aggiudicazione dell’appalto. Da parte sua, la Cina macina numeri e prototipi. La flotta di J-20 – caccia di quinta generazione – ha superato le 300 unità secondo stime recenti, consolidando una massa critica che conta quanto, o più, del salto generazionale. Pechino lavora intanto a prototipi di sesta generazione e a un’integrazione spinta tra velivoli pilotati e droni. In uno scenario in cui i cicli tecnologici si accorciano e l’IA entra nelle catene decisionali di bordo, arrivare tardi significa partire già in svantaggio. E l’Europa? La lezione dell’Eurofighter – prodotto congiuntamente da Italia, Regno Unito, Germania e Spagna – suggerisce che cooperare paga, ma solo se si stabiliscono per tempo regole chiare su leadership, export e ripartizione del lavoro. La duplicazione di due programmi nati per lo stesso scopo rischia di impiegare in modo inefficiente le risorse scarse, creare doppioni e allungare i tempi. Proprio mentre gli alleati si attendono un salto di qualità sulla difesa comune. Se i due progetti dovessero rimanere separati, occorrerà almeno garantire interoperabilità profonda su sensori e standard di comunicazione, così da evitare che i due ecosistemi crescano come isole non comunicanti. Se così non fosse, aumenterà il rischio di un paradosso europeo: spendere di più per ottenere, alla fine, meno capacità e meno autonomia. La finestra per evitare questo esito è ristretta, Stati Uniti e Cina stanno già trasformando i concept in linee di montaggio e dottrina operativa. Il rischio che corre l’Europa è di doversi affidare agli americani anche in futuro, come è già avvenuto per l’F-35 su cui oggi la dipendenza tecnologica è totale. La lezione dell’Eurofighter è lì a ricordarci che la competizione intraeuropea rallenta tutti e un compromesso alto può trasformare le divergenze iniziali in un vantaggio industriale condiviso.

Cosa vedere:

Come vederlo:

Online con Sky:

Caccia di sesta generazione, perché l’Europa rischia di restare a terra

Lorenzo Borga