Perché rischiamo di entrare nell’era del nazional-capitalismo

Qualche giorno fa, ai funerali di Charlie Kirk, il presidente Trump è stato accolto da una folla che scandiva ripetutamente USA, USA, USA. Non è la prima volta ovviamente: il coro ha caratterizzato tutta la sua campagna elettorale. Anche a comizi di precedenti presidenti, talvolta partiva un tale coro, ma non era certo l’abitudine, neppure con presidenti repubblicani , se non in occasioni particolari, come nei comizi post 11 settembre. Con Trump il coro è ormai abituale e segnala il passaggio a un nazional-capitalismo che si sta estendendo gradualmente ad altri Paesi. Questa tendenza, che potrebbe caratterizzare i prossimi decenni, sollecita una riflessione. In un saggio, dal titolo “La sociologia dell’imperialismo”, pubblicato nel 1919 Joseph A. Schumpeter sostenne che l’approccio marxista di considerare ogni sviluppo storico come riflesso di una lotta di classe tra capitale e lavoro era profondamente sbagliato. I rapporti economici erano sì importanti, ma non erano l’unica cosa che muoveva la storia in una direzione o in un’altra. In particolare, Schumpeter sosteneva che le spinte imperialistiche di certi Paesi avevano poco a che fare con lo spirito liberal capitalista, ma erano dovute a residui atavici di tipo feudale, aristocratico e militare, legati al prestigio, all’espansione per il potere fine a sé stesso e al militarismo. Il capitalismo non conosceva i confini e le nazioni. Per un imprenditore, un lavoratore era un lavoratore indipendentemente da dove era nato e in quale parte del globo si situasse. I confini non erano importanti, anzi potevano pure non esistere. Questa visione del capitalismo è alla base del processo di globalizzazione che ha portato alla liberalizzazione degli scambi di beni e di capitali a partire dagli ultimi due decenni del XX secolo. Il mondo sembrava essere diventato piatto, come scriveva Thomas Friedman, e la Storia era finita . Paradossalmente questa visione liberista secondo cui era possibile arrivare a un mondo senza confini in cui contavano solo i rapporti economici non era troppo lontana da quella marxista per cui contava solo la lotta di classe causata da disuguaglianze economiche. Ma era ugualmente sbagliata, come ci insegnano gli sviluppi degli ultimi anni. La globalizzazione degli scambi ha avuto tra le sue conseguenze la crescita a una velocità abnorme del potere non solo economico, ma anche politico di Paesi che avevano svolto un ruolo secondario per due secoli. E questa crescita ha fatto rinascere potenti sentimenti nazionalisti e ha dato origine a un’ideologia che, come ho detto sopra, definirei nazional-capitalista. L’emergere della Cina a superpotenza mondiale minaccia seriamente il predominio economico, politico e culturale che il mondo occidentale, a partire dagli USA, ha avuto dalla prima rivoluzione industriale e, secondo molti, la sua stessa identità. La risposta del popolo americano, e sempre anche degli altri Paesi avanzati, è stata quella di riscoprire, se non l’imperialismo a cui si riferiva Schumpeter, un acceso nazionalismo. Non contano solo i rapporti economici, conta anche la nazionalità degli attori economici, la loro cultura, la loro religione e, al limite, il colore della loro pelle e la forma di loro occhi. Questo sviluppo non va sottovalutato e comporta ovvi rischi. Dove non passano le merci passano gli eserciti, dice un noto adagio liberista. Non so se è vero, ma abbiamo visto nella storia tanti esempi di guerre commerciali che sono poi sfociate in conflitti militari. Il processo di “nazionalizzazione” delle economie va quindi per lo meno gestito con grande cautela se tanto i paesi avanzati quanto quelli emergenti vogliono evitare che il XXI secolo finisca per essere anche peggiore del XX secolo in termini di guerre e devastazioni.

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Carlo Cottarelli