Pensioni, quella di scorta non è per tutti

Maschio, 47 anni, lavoratore dipendente di un’azienda privata nel Nord Italia e con un buon stipendio. È questo l’identikit di chi ha deciso di farsi una pensione di scorta, cioè di che mette dei soldi in un fondo previdenziale in aggiunta ai contributi Inps. In media versa poco più di 3mila euro l’anno. Quasi 500 in più di una donna che ha fatto la stessa scelta. Un divario che dipende da molti fattori. I divari: donne e giovani restano indietro Per avere un assegno, che si sommerà a quello pubblico quando si finirà di lavorare, bisogna avere un buon salario. In Italia quelli degli uomini sono più alti di quelli delle donne. Che, inoltre, hanno carriere più discontinue, quindi meno certezze di mantenere a lungo il posto, più probabilità di perderlo a causa di impegni familiari , maggiori possibilità di vederselo trasformato in part time. Se a tutto questo si aggiunge che l’occupazione femminile è di gran lunga inferiore a quella maschile, si spiega perché la pensione privata non sfonda tra le donne . Discorso simile per i giovani , sui quali forse pesa anche l’idea che il traguardo della pensione è lontano. Crescono gli iscritti al "secondo pilastro" C’è però da fare i conti con quel che accadrà tra qualche decennio: chi smetterà di lavorare avrà al massimo il 60 per cento dell’ultima busta paga, un buon 20 per cento in meno di quante accade adesso. Con queste prospettive si spiega perché aumentano gli italiani che si stanno costruendo il cosiddetto “secondo pilastro”. Quasi dieci milioni di italiani , secondo la Commissione di vigilanza sui fondi pensione . Cifre in continua crescita dal 2016, grazie anche al pressing dei vari governi che abbiamo avuto negli ultimi anni, preoccupati degli alti costi della previdenza e il calo demografico. Una spinta che ha portato a 243 miliardi di euro le risorse depositate dai lavoratori e gestite da fondi, banche e assicurazioni. I fondi investono per lo più all'estero Una montagna di denari che solo in piccola parte, però, sostiene la nostra economia: 40,1 miliardi sono stati investiti in titoli di Stato, in altri strumenti finanziari di società italiane e in immobili che si trovano nella Penisola. Tolte le tasse e le spese, si tratta del 19,3%: il resto finisce all’estero. Oltre la metà dei contributi versati è utilizzata per acquistare obbligazioni governative , il rimanente in azioni di vario tipo. Per il Signor Rossi è difficile conoscere esattamente come sono impiegati i soldi che sta mettendo da parte per il futuro. Quello che sa, in linea di principio, è quanto potrebbe vedersi restituito. Dipende dal tipo di fondo sottoscritto, o previsto dalla categoria alla quale appartiene, e dalla quota che finisce in azioni o obbligazioni . Il Tfr resta un osso duro da battere Si tratta di una sorta di scommessa e, negli ultimi dieci anni, solo i fondi che hanno in pancia più azioni hanno guadagnato di più del Trattamento di Fine Rapporto . Si legge nell’ultima relazione annuale Covip a proposito del rendimento medio dei fondi: “E’ risultato del 2,2 per cento, leggermente inferiore alla rivalutazione del TFR”. La liquidazione lasciata in azienda cresce automaticamente a un tasso vicino a quello dell’inflazione ed è un osso duro da battere, soprattutto quando i mercati sono turbolenti.

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