Lavoro e disabilità, così in Europa il divario supera quello di genere

In occasione del mese per la diversità, per promuovere la consapevolezza sull'importanza dell’inclusione nei luoghi di lavoro e nella società, l’Eurostat ha pubblicato un approfondimento sulle disuguaglianze nel mercato del lavoro in Europa. Non ci sono sorprese per quanto riguarda il divario di genere sull’occupazione, che è in media del 10%, con 80,8% di uomini occupati contro il 70,8% di donne che lavorano, in leggera diminuzione rispetto al 2023. Ci sono però evidenti differenze regionali: in Italia il gap tra donne e uomini con un’occupazione è del 19,4%. Siamo ultimi in Unione Europea e solo secondi alla Turchia, dove il divario è del 38,1%. Dopo di noi ci sono Grecia e Romania, con 18,1 punti percentuali di distacco tra uomini e donne. Il divario si alza tra la popolazione nata all’estero, dove la differenza nei tassi di occupazione, a livello europeo, raggiunge i 18,1 punti percentuali. Ma se questi numeri raccontano storie di disuguaglianza già note, sono altre le percentuali che possono raccontarci disparità meno visibili e soprattutto meno raccontate: un altro aspetto evidenziato dai dati Eurostat è infatti il divario occupazionale tra persone con e senza disabilità, pari al 24%. Quasi la metà dei paesi europei registra un divario superiore alla media europea, così come l’Italia, che arriva al 25%. Non ci sono casi virtuosi tra i paesi del nord, come potremmo aspettarci, mentre gli unici a scendere sotto il 20% sono il Lussemburgo e la Slovenia . Questo dato è particolarmente rilevante se letto alla luce di un altro studio pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro nel 2024 sull’impiego e i salari delle persone con disabilità. Da questo rapporto emerge che a parità di età e istruzione, avere una disabilità riduce del 29% la probabilità di partecipare al mercato del lavoro per gli uomini e del 20% per le donne. Qui il divario è a vantaggio delle donne, perché tra le persone che fanno già parte della forza lavoro, cioè cercano o hanno cercato lavoro, la probabilità di essere disoccupati aumenta dell’8% per gli uomini e del 7% per le donne con disabilità. Ma resta un divario salariale perché le donne con disabilità guadagnano meno degli uomini con disabilità: in media, il gender pay gap in questo gruppo è del 5-6% a favore degli uomini, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Come si spiega questo divario A livello occupazionale, solo il 25% di questo divario è spiegabile da età, istruzione, tipo di lavoro, scrivono le autrici dello studio. Il restante 75% non ha motivazioni specifiche, e quindi può essere un indicatore di discriminazione o barriere sistemiche. “Questo dato non è sorprendente”, sostiene Eleonora Marocchini, psicolinguista e scienziata cognitiva, “e mi sembra comprensibile alla luce del grande rientro al lavoro in presenza dopo la pandemia da COVID-19: le aziende hanno dimostrato che il lavoro da remoto era possibile nel momento in cui serviva a persone non disabili, salvo poi eliminare gradualmente o improvvisamente, in moltissimi casi, le misure implementate per rendere accessibile il lavoro anche a chi fatica a muoversi da casa o ha bisogno, appunto, di una certa flessibilità negli orari o nelle modalità”. Non stupisce quindi che le persone con disabilità siano più spesso lavoratori autonomi rispetto a quelle senza disabilità. Questo può indicare sia una ricerca di flessibilità, sia una spinta verso l’autoimpiego dovuta a discriminazioni nei processi di assunzione. Marocchini, autrice del libro “Neurodivergente. Capire e coltivare la diversità dei cervelli umani” , è anche formatrice sull’inclusione e l’accessibilità in azienda, dove riconosce molte delle situazioni descritte dai dati: “I processi di recruiting non sono accessibili per moltissime persone con disabilità: dai primi colloqui telefonici , a quelli successivi in cui si deve spesso seguire un gioco di ruolo le cui regole non sono mai completamente note, alla rapidità con cui avvengono alcuni passaggi, che rende difficile anche per chi potrebbe recarsi al colloquio in presenza ma ha bisogno di organizzarsi per farlo avere il tempo e la possibilità di presentarsi”. E, aggiunge, esistono discriminazioni implicite e inconsapevoli nei confronti di persone che ci sembrano "funzionare in modo diverso": “su questo esiste una letteratura scientifica abbastanza solida, e credo che quasi qualunque persona con disabilità ne abbia fatto esperienza a livelli più o meno gravi”. Il 24% dei lavoratori disabili svolge impieghi elementari Lo studio dell’ILO segnala poi che tra i lavoratori con disabilità il 24% svolge lavori elementari, cioè mansioni poco qualificate, contro il 16% dei lavoratori senza disabilità. Troviamo, senza sorprese, una sottorappresentazione tra i manager e i professionisti . Che quindi faticano a capire le problematiche e le discriminazioni subite dalle persone assunte. “Ogni volta che ho fatto formazione aziendale permettendo di inviare commenti anonimi, ho ricevuto segnalazioni sul fatto che il clima in azienda portasse le persone a interagire il meno possibile, a non segnalare difficoltà e barriere importanti e conseguentemente ad avere magari anche performance valutate negativamente. Oppure, le persone hanno portato avanti uno stile lavorativo meno proattivo per autodifesa dalle microaggressioni”, continua Marocchini. Il dato del divario potrebbe quindi essere un segnale per osservare situazioni interne al proprio contesto e migliorare almeno le condizioni di accesso. E poi a gestire il gap salariale, che a livello internazionale è del 12%, mentre nei paesi ad alto reddito, del 9%. Questo si deve anche al fatto che il 27% dei lavoratori con disabilità nei paesi ricchi svolge lavori classificati come “a basso salario”, contro il 19% dei lavoratori senza disabilità. “Quando elenco le barriere possibili in azienda e chiedo di valutarle, chi mi ha chiamato a fare formazione si stupisce nel vedere che moltissime persone rispondono che queste barriere esistono “spesso o sempre”, dice ancora la psicolinguista. Ed ecco che questi dati dimostrano che tagliare i programmi di inclusione, come accade negli Stati Uniti, potrebbe rivelarsi più costoso delle discriminazioni che si volevano combattere.

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