Quel che resta del dollaro (molto)

Il recente downgrade degli Stati Uniti da parte di Moody’s che ha portato il rating da AAA ad AA+, con outlook stabile, ha riacceso il "dollar-doom loop", espressione che indica il circolo vizioso in cui si annunciano continuamente il declino e il crollo imminente del dollaro. Da mezzo secolo ogni crisi economica, default finanziario o guerra commerciale riapre infatti puntualmente il dibattito sul tramonto del biglietto verde. Eppure, nonostante tutto, a inizio 2025 il dollaro continua a essere la spina dorsale dell’economia mondiale. Secondo l’ultimo rapporto trimestrale del Fondo Monetario Internazionale che rileva la composizione delle riserve valutarie globali, il 57,8% è tuttora denominato in dollari americani, quasi tre volte la quota dell’euro, che si ferma al 19,8%. Inoltre, secondo la rete internazionale per i pagamenti transfrontalieri, il dollaro domina ancora nettamente con il 59,6% delle transazioni globali, mentre lo yuan cinese, pur avendo superato il dollaro australiano, resta al 4,33%. Insomma, mentre titoli e tweet continuano a celebrare una presunta "dedollarizzazione", i dati raccontano un altro film. Una piattaforma, non solo una moneta Il dollaro è diventato una vera e propria infrastruttura finanziaria. Wall Street offre il mercato più liquido e sicuro per asset globali, con i Treasury che rappresentano ancora la garanzia indispensabile per garantire stabilità nelle operazioni finanziarie internazionali. Anche oggi, con tassi decennali oltre il 4,3% e quelli della Federal Reserve tra il 4,25% e il 4,50%, questi titoli del debito americano restano centrali e la Fed mantiene una capacità fondamentale di attivare rapidamente linee di credito in dollari attraverso cui le banche centrali di altri paesi possono ottenere biglietti verdi in prestito per garantire liquidità nei momenti di crisi, rafforzando così il ruolo degli USA come prestatore globale di ultima istanza. Il paradosso del debitore imperiale In effetti se il dollaro dipendesse solo dalla solidità fiscale degli Stati Uniti, dovrebbe già tremare. Il disavanzo federale americano, pari a circa 1.800 miliardi di dollari nel 2024 , si avvicinerà a 1.900 miliardi nel 2025 secondo i dati del Congresso. La posizione patrimoniale netta negativa degli Stati Uniti verso l’estero ha raggiunto i -26.200 miliardi di dollari a fine 2024. Nonostante ciò, il premio al rischio rimane sorprendentemente contenuto. Questo perché nessun creditore, Cina inclusa, ha interesse a svalutare il proprio principale investimento. È il classico paradosso riassunto nella frase: "se devo alla banca un miliardo, il problema è della banca". L'ombra lunga della politica fiscale Il vero punto debole sta nella politica fiscale del Congresso americano. Tagli fiscali permanenti e dazi commerciali prolungano il deficit, obbligando il Tesoro americano a emettere oltre 2.000 miliardi di dollari di debito l'anno, ma finché il mondo vorrà titoli americani il sistema reggerà. Se poi però la credibilità americana venisse compromessa , si potrebbe passare rapidamente da un "flight-to-quality" a un "flight-from-quality" . Le sfide degli altri pretendenti Sul fronte alternativo, nessuna valuta sembra oggi in grado di sostituire davvero il dollaro. L'euro è al minimo storico, penalizzato da un’Unione bancaria incompleta e da mercati finanziari frammentati. Lo yuan cinese, nonostante l’ambizione globale di Pechino, resta frenato dal controllo sui capitali e dalla mancanza di uno Stato di diritto percepito come affidabile dagli investitori internazionali. Quanto al cosiddetto BRICS coin, valuta ipotizzata dai paesi emergenti nel vertice di Johannesburg del 2023, siamo ancora nel campo degli slogan, lontani da una vera operatività. Il dollaro: arma o assicurazione? Dopo l’invasione della Crimea, l’uso massiccio di sanzioni finanziarie ha trasformato il dollaro in un’arma geopolitica, spingendo paesi come Russia, Iran, India e Arabia Saudita a cercare valute alternative per il commercio energetico. Una diversificazione che procede comunque lentamente e che si scontra con il fatto che poi ogni nuova crisi geopolitica spinge comunque capitali verso i titoli Usa. Gli scenari a dieci anni Tre sono gli scenari possibili. Il più probabile vede il dollaro rimanere dominante, ma scendere al 50% delle riserve globali entro il 2035. Nel peggiore dei casi, una crisi interna agli Usa potrebbe far salire rapidamente i rendimenti e destabilizzare il sistema. Nel migliore dei casi, invece, riforme fiscali strutturali e investimenti in IA ed energia verde potrebbero rilanciare la produttività e rafforzare ulteriormente il dollaro. Cosa significa per l'Europa Per le imprese italiane che importano materie prime in dollari, coprirsi dal rischio di cambio rimarrà fondamentale e costoso. Parallelamente, l’Europa potrebbe rafforzare la sua attrattività finanziaria sviluppando un mercato degli euro green bond e creando una valida alternativa ai Treasury Usa almeno in alcuni settori. In conclusione, il dollaro resta troppo centrale, interconnesso e radicato per essere facilmente sostituito. Il vero pericolo per il dollaro non viene quindi dalle valute estere, ma dalla politica interna americana e se gli Usa eviteranno autogol clamorosi, il funerale del dollaro resterà, ancora una volta, rinviato a data da destinarsi.

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