Basterà la “semplification revolution” per rilanciare l’economia Ue?

Si sta concludendo un 2024 che, ancora una volta, è deludente per l’economia europea. Il Fondo Monetario Internazionale lo scorso ottobre ha previsto per quest’anno un tasso di crescita del Pil dello 0,8 per cento per l’area dell’euro e solo di poco superiore per l’Unione Europea. Anche se nel terzo trimestre la crescita è stata un po’ più alta dei trimestri precedenti, il confronto rimane comunque impietoso rispetto agli Stati Uniti che anche quest’anno viaggiano, sempre secondo il Fondo, al 2,8 per cento, come l’anno precedente. Che ci sia qualcosa da fare per rilanciare la competitività europea è ovvio ormai a tutti. Il primo passo è stato fatto alla riunione del Consiglio Europeo di Budapest del 12 novembre scorso, che ha approvato un piano in dodici punti per assicurare all’Europa “prosperità economica, sicurezza e resilienza” e che rifletteva le raccomandazioni del rapporto Draghi preparato su richiesta della Commissione Europea. Un elemento fondamentale di questo piano, il primo su cui sarà testata l’effettiva volontà da parte delle istituzioni dell’Unione Europea e degli Stati suoi componenti di prendere sul serio le necessarie riforme, riguarda la “semplification revolution”, la riduzione degli oneri che pesano sulle imprese europee in termini di preparazione di rapporti che descrivono le proprie attività svolte. L’obiettivo è di ridurre del 25 per cento gli obblighi di documentazione e di includere in tutte le future proposte una valutazione delle loro implicazioni in termini di oneri burocratici. Sembrerebbe un aspetto minore , ma non lo è, viste le conseguenze e i costi che questa attività di documentazione comportano. Non si tratta ovviamente solo di riportare informazioni: il problema principale sono come tali obblighi di informazione alterino i comportamenti delle nostre imprese riducendone la competitività. Per essere concreti facciamo un esempio. La Corporate Sustainability Due Diligence Directive richiede alle imprese di una certa dimensione di assicurarsi che tutta la catena del valore relativa ai loro prodotti sia in linea con certi standard di rispetto dei diritti umani e ambientali . Chi non è in linea con questi obblighi riceverà una multa di almeno il 5 percento del fatturato netto della società. L’obiettivo è nobile ma la questione è se è realistico aspettarsi che imprese, anche di una certa dimensione possano effettivamente accertarsi di quanto viene fatto lungo tutta la propria catena del valore. Difficile che questo possa effettivamente avvenire, se non in modo puramente formale. Ma il mero rischio di essere poi multati comporta incertezza nell’attività d’impresa e riduce la competitività delle nostre imprese. Vediamo la questione da un altro punto di vista. La direttiva può anche essere considerata, ottimisticamente, come uno strumento per difendere la competitività delle imprese europee rispetto a quelle dei paesi emergenti. Se noi compriamo solo da imprese che rispettano certi valori ESG, anche queste dovranno adeguarsi al rispetto di tali valori e smetteranno così di fare concorrenza sleale alle nostre imprese che a quei valori si devono adeguare. Anche qui mi sembra che si tratti di un’arma spuntata visto quanto poco ormai conta l’Europa rispetto all’economia globale. Se non commerciano con noi quelle imprese commerceranno con altre parti del mondo: non adegueranno certo i loro standard a quelli ESG solo perché noi smettiamo di commerciare con loro. La questione, per questa e per altre direttive europee, è quindi di verificare se gli strumenti usati siano adeguati al risultato. Non si mette in discussione la nobilità di quello che si vuole ottenere, ma semplicemente l’adeguatezza degli strumenti per raggiungere i risultati desiderati. Il rischio è che l’Europa si comporti come Don Chisciotte puntando all’avversario sbagliato con lo strumento sbagliato, pur avendo in mente nobili scopi.

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