Il fisco va alla caccia delle criptovalute: il ministero dell’Economia ha spronato l'agenzia delle Entrate e la guardia di Finanza a tenere traccia delle transazioni effettuate attraverso le piattaforme in cui si scambiano le monete digitali. La terza puntata di Tech Economy
Le criptovalute, come per esempio Bitcoin, possono essere acquistate attraverso dei siti online che ne permettono lo scambio tra chi vuole comprare e chi vuole vendere. I cosiddetti exchange. Ce ne sono diversi, uno è Coinbase che si è anche quotato in Borsa. Si tratta però di piattaforme, spesso straniere, che non hanno obblighi di comunicazione verso il fisco, come invece accade per le banche. La tassazione dei Bitcoin e delle altre crypto è dunque responsabilità del singolo contribuente.
Quanto si deve al fisco
Finché le si mantiene in portafoglio non si deve nulla al fisco, che dovrà esclusivamente essere informato in dichiarazione dei redditi del valore del proprio gruzzolo. Nel caso invece che si decida di venderle, il fisco batte cassa. Se si è detenuto Bitcoin per un valore di almeno 51.645 euro per più di sette giorni, si paga il 26 per cento sull'eventuale guadagno realizzato con la vendita. Questa è la soglia pari a 100 milioni di vecchie lire, a cui ancora la legge italiana fa riferimento. Sotto i 51 mila euro, soglia piuttosto alta, nulla è dovuto. Lo stesso avviene nel caso – ancora remoto oggi – si utilizzi la criptovaluta per comprare un bene, o per pagare un servizio.
Vince l'incertezza
Il problema però è l'assenza di una legge italiana specifica sulla tassazione di queste monete, su cui si applica infatti la normativa generale per le valute estere, a differenza di quanto accade in paesi come Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. E anche sulla scelta di applicare le tasse sulle valute estere si può discutere, visto che sono davvero in pochi a utilizzare Bitcoin come una moneta e non come un investimento. E così l’incertezza la fa da padrona. Facciamo un esempio: gli exchange non sono l’unico modo per detenere criptovalute, un’alternativa sono i cosiddetti wallet, app che fanno da casseforti virtuali in cui conservare il nostro gruzzolo. In sostanza, la versione digitale delle banconote nel portafoglio. Dal punto di vista formale non si tratta dunque di un investimento finanziario né di un deposito bancario, e quindi difficilmente si potrebbe applicare l’aliquota del 26 per cento che va pagata nel caso di guadagni. Ma la questione è complessa, e nemmeno i tributaristi potrebbero mettere la mano sul fuoco su una risposta. Sulle tasse sulle crypto, la certezza – in Italia – non c’è.
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