Il recovery plan e i limiti della tecnocrazia

Economia

di Lorenzo Castellani

Il ruolo di esperti e task force nel policy brief della Luiss

Epidemiologi, medici, scienziati, comitati tecnici e task force di economisti e manager: dall’inizio della pandemia da Covid-19, in Italia come in molte democrazie occidentali, si è rifatta viva una tendenza tecnocratica spiegabile, perlomeno in alcuni casi, da motivazioni comprensibili. Una tendenza che ha alle spalle una storia decennale, dal Council for Scientific Advice (CSA) costituito da Winston Churchill durante la Seconda Guerra mondiale per vagliare nuove soluzioni tecnologiche da utilizzare nel conflitto alle elaborazioni teoriche di economisti e sociologi di primo piano come John K. Galbraith e Daniel Bell, solo per citarne alcuni. Tuttavia proprio un’analisi storica della “fascinazione tecnocratica” consiglierebbe una maggiore cautela nel percorrere presunte scorciatoie efficientiste. Dai rischi per la legittimazione politica delle nostre democrazie alle conseguenze per il confronto dialettico che è alla base delle stesse, passando per la possibile (e voluta) confusione di responsabilità tra politici e tecnici, non mancano infatti le criticità associate a una simile evoluzione. School of Government Non solo Recovery Plan e task force. La tentazione tecnocratica e i suoi limiti 2 di 4 In Italia, nelle ultime settimane, le tensioni interne alla maggioranza di Governo hanno mostrato in filigrana il sempre più complesso rapporto fra tecnica e politica. Da un lato la tentazione del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, di depoliticizzare la gestione dei finanziamenti europei e la formulazione delle politiche legate al Recovery Fund con la creazione di una task force di tecnici e manager, dall’altro la resistenza dei partiti per far rimanere questo processo all’interno del Parlamento e dei tavoli di contrattazione politica. Non è la prima volta, dall’inizio della pandemia, che si rivela questa tendenza tecnocratica nei sistemi politici occidentali. Seppure con gradi e modalità differenti, tutti i Paesi si sono affidati maggiormente ai medici, agli scienziati e ai tecnici, organizzandoli in comitati e task force, per fronteggiare l’epidemia. Proprio come durante le guerre, infatti, è in questi momenti che lo Stato reclama un accrescimento di competenze per analizzare, consigliare, raccomandare le politiche da attuare per fronteggiare l’emergenza. Se fino a qualche tempo fa si credeva che i tecnocrati fossero prevalentemente gli economisti e gli alti burocrati di ministeri, Commissione Europea, banche centrali ed istituzioni internazionali, la pandemia ha riportato alla luce il rapporto profondo tra medici, scienziati e governi. Tecnocrazia, breve storia di un’idea dalla Seconda Guerra mondiale a oggi Da non dimenticare su questo piano sono le esperienze come il Council for Scientific Advice (CSA) costituito da Winston Churchill durante la Seconda Guerra mondiale per vagliare nuove soluzioni tecnologiche da utilizzare nel conflitto. Il CSA venne sciolto alla fine della guerra, ma una nuova generazione di scienziati di governo venne portata alla ribalta, per poi assumere un ruolo predominante nel formulare le politiche di difesa britanniche dei primi due decenni del dopoguerra. Parte della stessa tendenza era quel complesso industriale-militare denunciato alla fine del proprio mandato presidenziale da Dwight Eisenhower, il quale sottolineava come la combinazione tra capitale, scienza e governo avesse dato vita a un Leviatano sempre più complesso, articolato e costoso. Importante nel passato fu anche il ruolo di manager ed ingegneri. Il contributo dello scientific management, teorizzato da Frederick Taylor all’inizio del ventesimo secolo, fu fondamentale sia per aumentare la produttività delle grandi aziende americane che sul piano culturale per magnificare la figura pubblica del manager, successivamente adottata anche in seno alle pubbliche amministrazioni. Il termine “tecnocrazia”, invece, venne inventato negli Stati Uniti alla soglia degli anni Venti proprio da parte di un gruppo di ingegneri, associatosi in Technocracy Inc., che ambiva a razionalizzare l’economia e la politica americana seguendo i principi della fisica e della matematica. Negli anni Trenta in Francia, poi, fu rilevante il ruolo culturale del gruppo di X-Crise, ex allievi dell’Ecole Polytechnique che puntavano ad un miglior coordinamento dell’economia pubblica con quella privata secondo una logica efficientista di pianificazione. Ingegneri e manager furono al centro del dibattito politico anche nell’Italia fascista, attraverso il produttivismo imbracciato da Mussolini prima e per l’azione di School of Government Non solo Recovery Plan e task force. La tentazione tecnocratica e i suoi limiti 3 di 4 Alberto Beneduce come sviluppatore dell’intervento pubblico poi, e nella Germania weimeriana, soprattutto per bocca dell’ingegnere-filosofo Walter Rathenau. Più tardi, negli anni Sessanta e Settanta, società a forte caratterizzazione tecnocratica furono immaginate dall’economista John K. Galbraith che, nel suo libro “Lo Stato industriale”, disegnava una società sempre più pianificata dal connubio tra Stato e capitalismo, e fondata su processi di formazione permanente; dal sociologo Karl Mannheim, che teorizzava come unica possibilità di esistenza della social-democrazia quella di sviluppare una società della competenza capace di frenare le derive demagogiche; e da un altro sociologo, Daniel Bell, che considerava la società postindustriale, quella dell’economia della conoscenza e della fine delle ideologie, il luogo in cui i tecnocrati avrebbero svolto un ruolo preminente sul piano politico. La “fascinazione tecnocratica” ai nostri giorni Questa “fascinazione tecnocratica” si è spinta fino ai pensatori di oggi. Parag Khanna è un convinto sostenitore della preminenza della governance efficiente rispetto alla rappresentanza democratica; Nathan Gardels ha immaginato correttivi tecnocratici nel processo legislativo e decisionale delle democrazie; lo scienziato politico italiano Danilo Zolo già nei primi anni Novanta vedeva un principato tecnocratico all’orizzonte fondato sulla mera gestione selettiva dei rischi, senza politica e senza ideologia; e c’è anche chi, come Jason Brennan si è spinto fino a proporre un vero e proprio superamento della democrazia a favore dell’epistocrazia. Ciò che unisce questi pensatori è l’idea comune che, una volta superata la vecchia struttura di potere ed ideologica delle democrazie postbelliche, i regimi politici possano sopravvivere in un mondo globalizzato, capitalistico ed altamente tecnologico soltanto attraverso una verticalizzazione del potere nelle mani dei tecnici. Nei fatti se si osservano le nostre democrazie appare sempre più evidente la compresenza dell’altro potere, quello tecnocratico. Banche centrali, corti costituzionali, autorità amministrative, fondi pubblici, regolatori globali, task force e comitati esercitano un ruolo sempre più preponderante nella dimensione del politico. Senza contare il ritorno dell’interventismo statale che stiamo vivendo durante questa pandemia, con uno Stato sempre più pronto a sostenere nuove misure di welfare, con i tecnici richiesti per le fasi di progettazione e attuazione, sia soprattutto ad entrare nel capitale di aziende già esistenti oggi considerate strategiche, o a rafforzare i fondi sovrani per governare il mercato in un momento difficile e per completare lo sviluppo tecnologico delle rete. Nei prossimi anni, anche a livello economico, assisteremo ad una maggiore pianificazione e ad un protezionismo moderato del capitale da parte dei governi. Come in passato, i manager pubblici e la tecnostruttura a loro supporto assumeranno una maggiore influenza rispetto ai decenni precedenti. School of Government Non solo Recovery Plan e task force. La tentazione tecnocratica e i suoi limiti 4 di 4 Limiti e illusioni dei tentativi di depoliticizzazione Naturalmente teoria e prassi tecnocratiche non sono scevre da problemi politici. Il rischio principale è che i correttivi epistocratici s’infrangano sullo scoglio della legittimità politica o che si dia luogo ad istituzioni lontane, incomprensibili ed incontrollabili per la grande maggioranza dei cittadini. Niente assicura, di fatti, che l’espansione tecnocratica possa derogare ai principi cardine del liberalismo come il bilanciamento di potere e la possibilità per i cittadini di chiedere conto, seppure in modo generico, alla classe governante del suo operato. Inoltre, vi è anche il rischio che la classe politica utilizzi i tecnici come una scusante, un capro espiatorio su cui scaricare le proprie responsabilità. O peggio come un meccanismo per rinunciare a prendere delle decisioni collettive importanti che vengono devolute proprio ai corpi tecnici. Terzo, come scriveva Vilfredo Pareto in Trasformazione della democrazia, “si può peccare per ignoranza, ma si può peccare anche per interesse. La competenza tecnica può evitare il primo male, ma non può nulla contro il secondo”. La tecnocrazia, dunque, non garantisce alcuna imparzialità o neutralità nella decisione pubblica, come invece alcuni teorici sono portati a far credere. Da ultimo, c’è il rischio dell’illusione di poter ridurre la politica a un insieme di leggi scientifiche e procedure matematiche al fine di neutralizzare il conflitto endemico alla politica stessa. Qualsiasi tentativo di neutralizzare la conflittualità tra gruppi, anche con i mezzi tecnici più avanzati, è infatti destinato a scontrarsi con il sottosuolo della politica, con le pulsioni e l’irrazionalità, con i limiti conoscitivi dell’individuo, e con la pluralità di interessi, passioni, ragionamenti che scuotono a vari livelli il vivere associato degli esseri umani. La politica resta infatti un processo di discussione, e la discussione richiede sempre, nel senso greco del termine, una certa dialettica. Ancora oggi, in definitiva, soltanto la “mera politica” può risolvere i conflitti della comunità e coltivare la responsabilità dei governanti e dei governati. Per tali motivi è bene diffidare di coloro che pretendono di essere in grado di fare di meglio in altro modo, spodestando l’arte politica della mediazione e della rappresentanza. Poiché dietro ogni tentativo di annullare la politica come processo di discussione si nasconde un pericolo dispotico. 

Economia: I più letti