Come agisce un sex offender per adescare le sue giovani vittime

Prego, scomodati ché parliamo dell’uomo nero. L’altro giorno il mio compagno mi inoltra un link: “Busto Arsizio, ragazzina di 14 anni violentata e picchiata al secondo appuntamento da un 21enne conosciuto online: 50 giorni di prognosi”. Busto Arsizio è la città dove sono nata e cresciuta, dove la mia figlia maggiore, che di anni ne ha 13, frequenta la scuola. Lo giro al suo papà, il mio ex marito. E poi lo giro anche a lei. Sono un genitore che scomoda anche le sue figlie, che pone in valore la condivisione del reale come mezzo preventivo e una certa quota di paura come forse la ragione più sensata per badare a dove si mettono i piedi, guardare a destra e a sinistra prima di attraversare la strada, prestare attenzione ai cani che non si conoscono - e via dicendo, dentro e fuori di metafora. Non mi preoccupa preoccupare mia figlia, mi preoccupa di più un atteggiamento negante che avvolge i nostri ragazze e le nostre ragazze in un pluriball di angoscia e vigliaccheria mascherato da falsa tutela. Passati due giorni, leggo in rassegna stampa un altro titolo dalla cronaca di Mestre: uno stupratore seriale, Massimiliano Mulas, 45 anni, avrebbe seguito una bambina di 11 anni fino a casa, violentandola nell’androne del suo palazzo. Sui miei social, in diversi mi hanno chiesto di poterne parlare. Ho provato a chiedere loro cosa servisse che io dicessi: non lo sapevano, e lo capisco. Credo si trattasse di un bisogno di consolazione in purezza. Nell’immaginario collettivo, l’adescamento è probabilmente il terrore più arcaico e irrazionale: quando un bambino non riesce a dormire e ha paura del buio, è perché teme l’oscura presenza che la notte vive nel suo armadio o sotto al suo letto. Ce l’ha perché gli sono state raccontate le storie di Cappuccetto Rosso ingannata dal Lupo Cattivo, di Hansel e Gretel circuiti da una vecchia apparentemente innocua, di Pinocchio blandito prima dal Gatto e la Volpe e poi da Mangiafuoco. Insomma, che ai bambini possano capitare cose orribili, ce l’abbiamo in mente sin da bambini: ce lo dicono i nostri genitori. In forma di racconto o di monito , l’avvertimento che il mondo sia popolato di minacce incarnate in figure perverse, malintenzionate e punitive punteggia di fatto l’infanzia di ogni piccolo e di ogni piccola. Si tratta di racconti, frasi fatte, paure collettive che assumono la dignità culturale di un patrimonio che conosciamo tutti, nati con l’intento pedagogico di fare quello che pochi giorni fa ho fatto anche io con mia figlia: allertare, dire amorevolmente “Stai attenta”. Ma c’è un “ma”. Per riprendere possesso in modo razionale e utile della cautela come dote di pregio da tramandare, dobbiamo sapere con contezza di cosa e come preoccuparci. Mi spiego: mentre nei film dell’orrore che spesso vanno in onda nelle menti dei genitori la trama non di rado prevede un generico sconosciuto che nel buio, in una stradina isolata, quando indossi un top con l’ombelico di fuori sbuca dal nulla per compiere orrendi atti criminosi, è bene sapere che statisticamente e scientificamente l’eventualità che senza alcun prodromo una persona adulta ne assalti sessualmente una minorenne vedendola solo un minuto prima camminare per strada è più vicina alla fantacronaca che alla realtà. Se vuoi allora, lettore scomodo, questa volta provo a raccontarti io una storia: quella di come generalmente una vittima incappa in un predatore sessuale - sì da sapere di cosa avere davvero paura. Ché avere paura e basta non serve assolutamente a niente, mentre avere le paure giuste può rivelarsi più utilmente salvifico. Come sta emergendo sia dagli avvenimenti di Busto Arsizio che da quelli di Mestre, sembra proprio che entrambi gli aggressori avessero dei precedenti con le loro vittime - elemento che non mi sorprende: il primo aveva chattato online con la minore per mesi e l’aveva già incontrata una volta; il secondo, pare stesse pedinando la minorenne da almeno una settimana. Dicevo: se fossero dati confermati non sarei stupita perché questo modus operandi è tipico. Come ho scritto, è rarissima una versione della storia nella quale un sex offender si avventa su un bersaglio aspecifico e casuale. Se accade, generalmente si tratta di stati psicotici nei quali, alterati, non si risponde delle proprie azioni e si è pericolosamente imprevedibili - ma ribadisco: non è la prassi. Non è questa la storia da conoscere per raccontarla in originale a chi siamo chiamati a proteggere. Un violentatore non è mosso da un istinto sessuale indifferenziato, immediato, che potrebbe sfogare rivalendosi su chiunque limitandosi a violare un corpo. Molto più spesso gli occorre il corpo: quello di chi ha scelto. I predatori sessuali infatti si muovono secondo un piano piuttosto preciso, anche nei casi in cui l’animale sacrificale è piccolo. Un agnellino: una bambina o un bambino. Il sex offender infatti, soprattutto di matrice pedofiliaca, fantastica sempre sull’intrattenere una relazione con la sua vittima. Gli interessa perversamente una certa forma di legame, non è raro che più che l’agito sessuale sia eccitato dal fatto di pregustarlo, apparecchiarselo. Nel frattempo, immagina. La prima fase di ogni forma di adescamento ha una sistematicità tale da meritare persino un nome: si chiama testing. Occorre al violentatore seriale per capire se “ha scelto bene”, se la persona che ha individuato nel suo radar faccia effettivamente al caso suo. Se infatti può essere stato inizialmente attratto da caratteristiche fisiche, di fatto poi c’è un tratto preciso del minore prescelto che tende ad acquisire un primato sugli altri: la vulnerabilità. Nessun aggressore sarà istintualmente attratto da un bersaglio che non ha alte probabilità di colpire in pieno centro: non gli conviene, per molte ovvie ragioni. Serve quindi che il ragazzino o la ragazzina che ha individuato gli permetta di portare a compimento il suo piano, di realizzare la fantasia che dentro di sé sente malamente di aver coltivata, custodita, preparata. Qualcosa che potrebbe andare storto lo renderebbe aggressivo, lo frustrerebbe angosciosamente: va accuratamente evitato. Nella selezione della preda vince dunque l’impressione di poter agire indisturbato: mentre le scriveva, mentre la osservava, mentre le sorrideva, mentre iniziava a parlarle, mentre si fermava a conversare per un tempo sempre più lungo, mentre azzardava un saluto, mentre le proponeva di vedersi di persona , non si frapponeva tra lui e il suo piano alcun ostacolo. Nessuno lo avvicinava dopo qualche giorno a chiedergli perché si aggirasse sospettosamente fuori dalla tal scuola di musica, nessun adulto si faceva trovare in auto a prendere una ragazzina che di solito usciva sola dalle ripetizioni di matematica, nessun genitore andava in polizia postale a denunciare un maggiorenne che scriveva in modo equivoco ad una ragazzina. Nessuna interferenza che potesse segnalare qualcosa di diverso dal poter provare ad agire indisturbato. A quel punto, ciò che il predatore ha messo alla prova è la sua capacità di simulare affidabilità, di non avere destato sospetti. Successivamente, questo servirà irrimediabilmente a creare nella vittima la sensazione quasi incancellabile di essere a sua volta responsabile degli abusi: per non avere capito, per essere stata incauta, per non essersi fermata prima, per essersi fidata. In psicoanalisi si chiama “identificazione con l’aggressore”, ed è il meccanismo di difesa utilizzato per assolversi assolvendo in parte il proprio aguzzino, per spartirsi le colpe, per dargli delle attenuanti. Mi piacerebbe avere modo e spazio per indulgere in una approfondimento ancora più tecnico, squisitamente psicologico - ma non ce l’ho. Ti basti sapere, lettore scomodissimo, che per un certo Sándor Ferenczi - pioniere della psicoanalisi ungherese - l’identificazione con l’aggressore nelle lunghe e dolorose storie di pedofilia portano le piccole vittime addirittura ad anticipare i desideri del predatore, quasi a suggerirglieli: lo scopo è quello di inibire il disgusto e cercare di contenere il rischio di andare in frantumi. Una volta percepito di essere in trappola si finisce - inconsciamente - per parteciparvi attivamente, proteggendosi così da soli dalla morte psichica tramite una sorta di protagonismo attivo al trauma. Ora: immagino vorresti proseguire nella lettura trovando il modo per evitarlo, ma sono giunta a più di novemila battute - e avrei dovuto scriverne poco più di un terzo. Questa notte hai una storia più accurata da raccontarti. Riposa. Sabato prossimo non ti racconterò come va a finire, ma come non farla mai iniziare.

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Stefania Andreoli