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Nembro e Bergamo, un anno dopo, fra rabbia e dolore

Cronaca

Carola Di Nisio

Salvatore Mazzola arriva dalla Sicilia, da Montelepre, e vive adesso in provincia di Bergamo. Lo abbiamo incontrato nella sua panetteria: ecco come il Covid gli ha strappato il papà. A Bergamo invece incontriamo Cristina Longhini: anche lei ha perso il padre a causa del coronavirus

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Non si è mai fermato Salvatore. Anche quando è esplosa la pandemia, a Nembro e in tutta la provincia di Bergamo, il pane l’ha sempre sfornato. Dolci, brioche, panini, bottoncini morbidi, all’olio e specialità della sua terra come il pane di tumminia…per non parlare poi delle paste di mandorle e delle treccine al forno zuccherate (COVID, OLTRE 100MILA VITTIME: LE STORIE - I DATI).

La bottega, nella piazza principale di Nembro, la sua casa lo è stata per davvero l’anno scorso….in una stanza del suo laboratorio dormiva e poi si svegliava alle tre del mattino per impastare la farina con tutti gli ingredienti. “Non potevo tornare dalla mia famiglia”, ci spiega. “Temevo potessi diventare io stesso un veicolo di contagio”, racconta Salvatore. Ma il virus, nonostante le sue precauzioni, colpisce tutta la sua famiglia fra febbraio e marzo dell’anno scorso. Prima i bambini, poi sua mamma, poi il papà e sua moglie. Si salvano tutti, tranne suo padre Giuseppe, un ex professore di educazione fisica in pensione che aveva 81 anni. E’ stato un calvario durato troppo a lungo, ci racconta Salvatore. In quei giorni di febbraio, mentre tutta la bergamasca veniva devastata dal virus, la confusione regnava sovrana.

Sua padre inizia a stare male il 5 marzo scorso. Aveva tosse secca ed era affannato. Soprattutto quando andava a dormire,  gli mancava il fiato.. Dopo alcuni giorni, vedendolo peggiorare, tutta la famiglia si allarma.

 “La prima cosa che abbiamo fatto” – ricorda Salvatore “è stata quella di chiamare il numero dell’emergenza Covid. E’ il 17 marzo. “Ci risponde una ragazza dall’accento straniero alla quale diciamo che mio padre ha evidenti sintomi Covid e anche mia moglie e mia mamma stavano male. La ragazza ci dice che avrebbe trasmesso la nostra richiesta e che ci avrebbe richiamato solo nel caso si fosse trovato un medico disposto a sottoporci a tampone a domicilio.”

Nessuno mai interverrà perché l’informazione ricevuta era sbagliata, chiariranno poi i medici. Ma andiamo per ordine: il padre di Salvatore continuerà la sua degenza a casa.  Curato con la tachirpirina. La febbre, ad un certo punto scompare e Giuseppe sembra stare meglio: “Forse si stava riprendendo”, ricorda Salvatore ripensando a quei segnali di miglioramento. In realtà la salute di Giuseppe stava peggiorando : la tosse continuava e quando doveva andare a dormire il suo corpo non ce la faceva a stare supino perché il fiato mancava sempre di più. Nel giro di qualche giorno, le sue condizioni si aggravano disperatamente. Sarebbe stato necessario un ricovero, una visita da parte di un medico, una cura giusta per poter alleviare quelle sofferenze. E invece nulla di tutto questo accade.

La moglie di Salvatore chiama di nuovo il numero di emergenza:  stavolta dall’altra parte del telefono l’operatore sanitario sente Giuseppe respirare con affanno e capisce così che il malato è grave. Viene inviata subito un’ambulanza anche se ormai è troppo tardi. Il padre di Salvatore viene ricoverato in una clinica di Bergamo.

“Martedì 31 marzo è l’ultima volta in cui lo abbiamo sentito", si commuove Salvatore. “In una videochiamata drammatica, mio padre ci diceva: non ve ne andate, restate con me, mentre cercava di bere da una bottiglietta d’acqua, non riuscendoci”.

 

Era alla fine, si spegnerà poco dopo, da solo, senza la sua famiglia. Giuseppe era stato, nel 1967, allenatore e fondatore di una squadra di basket a Montelepre.

La farmacista Cristina: "Mio padre poteva salvarsi"

Cristina è invece una farmacista, vive a Milano con la sua famiglia (VIDEO). Ci ha raccontato gli ultimi giorni di vita di suo padre. Aveva 65 anni il signor Claudio e viveva a Bergamo. Si era ammalato di Covid a marzo dell’anno scorso. “Aveva sempre la febbre – ricorda Cristina -. Vomito e dissenteria. Mia mamma, farmacista anche lei, aveva subito allertato il medico di base che gli aveva prescritto dei fermenti lattici e antibiotici. Ovviamente mio padre aveva sintomi Covid e quindi peggiorava di giorno in giorno ma per il medico che lo curava aveva solo un virus intestinale”.

 

Dopo un calvario durato giorni, Claudio viene ricoverato al Papa Giovanni XXXIII e gli viene diagnosticata una polmonite interstiziale bilaterale: il tampone è positivo. Viene messo sotto il casco CPAP. Da quel momento, ricorda Cristina, non abbiamo più potuto contattarlo. “Erano i medici che ci chiamavano – ricorda la farmacista: c’era bisogno di un posto libero in terapia intensiva ma non si trovava. L’ospedale ha chiesto a noi, come famiglia, di attivarci per cercarlo. Ho fatto appelli su internet, social, dappertutto. Ma il posto non si è trovato”.

 

“Papà è stato intubato ma il 19 marzo è morto”. “Con le pompe funebri l’abbiamo portato al cimitero e l’abbiamo lasciato lì. Poi l’8 aprile è arrivata dal Comune di Ferrara la fattura per la cremazione. L’avevo portato lì a nostra insaputa”. Il 18 aprile è avvenuta la tumulazione, e la benedizione è durata qualche secondo. Tutto velocemente senza la possibilità di dire una preghiera.

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