"Noi Partigiani": la Resistenza e la Liberazione raccontate da chi c'era

Cronaca

Feltrinelli pubblica le testimonianze di chi ha combattuto il nazifascismo contribuendo a liberare il nostro Paese in un'antologia a cura di Gad Lerner e Laura Gnocchi. Ne pubblichiamo il capitolo che raccoglie i ricordi di Lidia Menapace

Se non ci fossero state le donne non ci sarebbe stata la Resistenza, punto e basta. Dopo l’8 settembre furono loro a ricoverare in casa l’esercito italiano in fuga, vestendo i soldati, nutrendoli, mantenendoli. Ma questo non è stato riconosciuto storicamente, è una pagina rimasta nell’ombra. E del resto che aria tirava si capì quando il 25 aprile del ’45, mentre nelle città le parate dei partigiani sancivano la vittoria, Togliatti disse: “È meglio che le ragazze non sfilino, il popolo non capirebbe”.

Che cosa avrebbe pensato il popolo? Quello che già pensavano tutti: le ragazze che lasciano la casa, vanno in montagna e dormono in tenda con i ragazzi sono di piccola virtù. Di noi, alcuni pensavano che fossimo le puttane dei partigiani, che la cosa più importante del nostro servizio fosse quello. E questo mi feriva molto. Reagivo a male parole, anche se pochi avevano il coraggio di dirlo in faccia, eran solo sottintesi. Ma anche i partigiani, mica tutti, ovvio, erano figli del loro tempo. Sotto il fascismo le ragazze dovevano studiare poco, sposarsi e mettere al mondo tanti figli per la patria. Anche la Chiesa era d’accordo. Non occorreva certo che le donne conoscessero il latino, e Cicerone. Tanto che, dopo la Liberazione, molte di noi preferirono non dire di essere state partigiane. Guardavano anche me con fastidio, tranne la vecchia maestra di mia mamma, che era stata una ragazza madre messa incinta dal suo direttore, dunque una donna non rispettabile per quei tempi.

Lidia Brisca è il mio nome da ragazza, sono nata a Novara il 3 aprile 1924. La mia famiglia era modesta, sia dal punto di vista culturale che economico. Famiglia di mazziniani. Mio padre lo era. Mia madre, figlia di un macchinista delle ferrovie, aveva familiarità con l’anarchia. Mio nonno, infatti, a Sampierdarena, quartiere operaio di Genova, era un anarcosindacalista e con il fratello allevò sia mia mamma sia il suo fratellino, quando rimasero orfani di madre. Mia mamma, che era più impetuosa di mio papà, Mussolini lo chiamava “quel là”, e se sei rispettoso dell’autorità non chiami “quel là” il capo del governo. Se poi il Duce ne faceva una grossa, diventava “quel là che parla dal balcone”. E le azioni di “quel là” mi segnarono sin da ragazza, in modo profondissimo. Io e mia sorella, che aveva quattro anni meno di me, avevamo come compagne di scuola due sorelline, Ester e Ruth, che venivano spesso a fare i compiti a casa nostra. E noi andavamo a casa loro, cosa che non accadeva con tutti. La figlia del federale i compiti a casa nostra non veniva di certo a farli, per esempio.

Un giorno, era il 1938, andammo a scuola e le due bambine non c’erano; tornammo a casa e, dopo pranzo, pensammo di portar loro i compiti a casa. Suonammo, aprì la domestica e ci disse che i compiti non servivano più. “Non verranno più a scuola.” “E perché?” “Perché sono ebree.” Ma io non comprendevo cosa diceva, erano tutte parole una dietro l’altra che per me non avevano senso. La domestica chiuse la porta, noi andammo via. Non avevo capito nulla, ma dovevo difendere il mio prestigio davanti a mia sorella piccola, e così provai a dire che quella là era una ragazza di campagna, stava un po’ indietro.

“Non sarà mica una malattia infettiva, essere ebrei?” Perché l’unica ragione per cui sta vi quaranta giorni lontano da scuola era se avevi il morbillo o la scarlattina. Il giorno in cui portammo a casa la pagella con su scritto “di razza ariana”, mia madre ci disse di strapparla. A queste cose sono stata vaccinata sin da piccolissima. E quando, diventata ragazza, fu il momento di iscrivermi all’università, mio padre preferì che andassi alla Cattolica a Milano, pur essendo lui un laico. Disse: “La Cattolica non è di Stato, forse è anche un po’ antifascista”. E aveva ragione, molti professori approfittavano dell’essere meno sorvegliati, perché la Cattolica faceva riferimento a un potere diverso, quello del Vaticano. A Milano conobbi padre David Maria Turoldo, grande sacerdote e antifascista; il primo libro di poesie che scrisse fu Io non ho mani, e lui aveva delle mani lunghe cinquanta centimetri, era sproporzionato, ossuto, alto. Mi ricordo bene anche padre Camillo De Piaz, un altro confratello: loro due facevano prediche antifasciste. Anch’io, a quei tempi, ebbi un’esperienza di fede molto intensa, per niente bigotta. Tra l’altro in contrasto con la mia famiglia, che era poco osservante. All’università cominciai a impegnarmi attivamente, con il Cln. Per andare a Milano usavo la bicicletta, ormai il mezzo di trasporto più importante: non era possibile viaggiare in treno perché il ponte sul Ticino era stato fatto saltare, e potevi attraversare solo in bici. Dopo l’8 settembre, cominciai a collaborare col Cln di Novara. Mio padre fu preso e non sapemmo più nulla di lui per tre mesi, i più tragici della nostra vita familiare. Era stato deportato in Polonia. Alla fine lui riuscì a farci arrivare una cartolina dove scrisse: “Vi devo dire una cosa su cui riflettere: potrei tornare a casa ma firmando una lettera di cui mi vergognerei per tutta la vita. Tuttavia scegliete voi quello che pensate sia utile”.

Ricordo che dettero a me, la maggiore, il compito di discuterne nel consiglio di famiglia, costituito da me, mia mamma, mia sorella, mia zia, le donne, insomma, che gli uomini erano tutti al fronte. Alla fine, fui incaricata di rispondere: “Papà, non vogliamo che ti vergogni, quindi scegli in coscienza. Noi saremo sempre d’accordo con quello che farai”. Lui scelse di rimanere nel campo di concentramento. Fu poi liberato vicino a Berlino e, quando tornò a casa, per due anni non raccontò niente di quello che aveva vissuto. Ma non riusciva più a dormire nel letto, la sera tirava giù il materasso e lo metteva sul pavimento.

Fu anche questa circostanza a spingermi verso un’azione sempre più militante. “Voglio fare la partigiana.” Col tempo diventai una staffetta riconosciuta, facevo parte della divisione Rabellotti, intitolata a un giovane medico di Galliate torturato e ucciso. Misi subito in chiaro che io armi non ne avrei usate. Feci però un compromesso con me stessa, potevo trasportarle. E più volte, ad esempio, traghettai esplosivo plastico: bisognava portarlo a pelle, era freddo… In genere mi affidavano i messaggi: se erano da imparare a memoria, lo facevo; se erano scritti, bisognava mangiarli in caso di cattura. Non mi successe mai.

Una volta dovevo portare un messaggio alla sorella del parroco di Arona, una staffetta. Presi il treno, era novembre, faceva molto freddo. Per arrivare alla canonica c’era da fare una salita, aveva nevicato e ricordo ancora il crac crac della neve sotto gli scarponi. Perché, se c’era qualcuno, era sempre meglio che sentisse nitidamente che stavo arrivando. Facevo, dunque, sempre più rumore ma rallentavo anche, per la paura. A un certo momento, vidi due canne di mitra che spuntavano. Rallentai sempre di più, quasi mi fermai, facendo un baccano incredibile. Avvicinandomi, scoprii che erano le stanghe di un carretto. E, allora, via veloce! Ma come si fa a confondere due stanghe di carretto con due canne di mitra? Con la paura si può.

Un’altra volta, il mio odiato Cicerone mi salvò la vita. Il latino non lo amavo (una volta laureata, avrei voluto la cattedra di italiano e greco ma non era disponibile, e mi sono dovuta sorbire la penitenza del latino quando ho cominciato a insegnare al liceo). Allora, stavo scendendo dalla Val d’Ossola dopo aver fatto tutti i vari turni. A una svolta, al termine di una lunga tirata di dieci chilometri in bici, da sola, vidi in fondo un posto di blocco. Quando si incontrava un posto di blocco non bisognava voltarsi e scappare, altrimenti ti sparavano alla schiena; dovevi, invece, andare sempre più svelta e avere una storia da raccontare. E io ce l’avevo. Pedalai di gran corsa, arrivai e dissi: “Lasciatemi passare per piacere, sono andata a studiare latino con una mia compagna al paese vicino, ma mia mamma si preoccuperà moltissimo se non torno subito”. Imbastii tutta una storia e, per supportarla, tirai fuori le Tusculanae di Cicerone. Ricordo ancora l’effetto che fece sul poliziotto: “Ma va fora dai bàl, ti e il tuo latinorum”. E, quindi, Cicerone mi salvò la vita. Che fossi una partigiana, nel vicinato non era esattamente un segreto. Alcuni lo intuivano, altri magari no. Io poi per loro ero un po’ stramba, stravagante, perché mi piaceva andare a scuola, ero per giunta molto brava. Pertanto, avevo questa nomea di non essere una ragazzina “pane e salame”. Sospettavano, ma nessuno si lasciò sfuggire niente, perché mi avrebbero messo in pericolo. Da ragazzi, durante quei giorni, il futuro ce lo siamo ragionati tanto, quasi ossessivamente. Discutevamo in tenda, nei boschi, lungo i fiumi, per strada. Appena c’erano due momenti di tempo, ci chiedevamo: “E dopo cosa faremo?”.

Volevamo la libertà, che ci era stata tolta massimamente. Ma non una libertà in cui ognuno fa quello che vuole, compreso pensare che il ritorno del fascismo sia legittimo: ci siamo cascati una volta, non siamo mica scemi. Quando adesso sento rinascere opinioni di destra estrema, “sovraniste”, come le chiamano, capisco quanto sia mancata la conoscenza, il tessuto culturale che andava costruito giorno per giorno nelle scuole. Ora che segni di fascismo riaffiorano, ho paura, che non è un sentimento che mi assomiglia molto. Ho paura perché la democrazia che abbiamo costruito pare essere rimasta fragile, che possa sgretolarsi. Una democrazia fragile e anche noiosa. Io sono una che ha mangiato pane e politica da ragazzina, che ha fatto politica da adulta, che si è impegnata per le donne e per la pace. E che ha sempre seguito i dibattiti, anche i più tediosi, con grande passione. Ma da qualche mese, guardando quelli in tv la sera, mi annoio. Questa noia significa che ciò che vedo non ha senso. Di quel che ho fatto io, invece, resto orgogliosa, assolutamente. E non ho voluto neanche la piccola pensione che mi era stata assegnata dopo la Liberazione. Non ho fatto mica la Resistenza per guadagnare.  © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Prima edizione in “Varia” aprile 2020

Tratto da "Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza italiana", a cura di Gad Lerner e Laura Gnocchi, Feltrinelli, euro 19, pp. 336

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