Perché i ragazzi non devono smettere di andare ad Auschwitz

Alle gite scolastiche dirette ad Auschwitz partecipano i ragazzi, tanti ragazzi, e qualche adulto, pochi adulti. Dunque, parlare di quei viaggi, numerosi e continui, cercando di piegarli a finalità discutibili, significa operare un intervento di pessima qualità pedagogica, offendendo i partecipanti e svilendo il lavoro di chi li prepara. Quasi sempre, quando si ritorna a casa da quella destinazione, non si è più come prima, perché passare dallo stesso luogo in cui si è verificato qualcosa di tanto sconvolgente, significa assorbirne gli apprendimenti. Per questo, tale destinazione negli ultimi decenni è stata un grande ausilio morale per i nostri figli, per la loro formazione. Nel febbraio del 2008 sono stato invitato dalla Fondazione Fossoli a fare da accompagnatore a seicento studenti di scuola superiore, la meta del viaggio era Auschwitz. Una di quelle “gite” che incautamente in queste ore vengono evocate a sproposito, per apportare qualche improbabile ritocco retroattivo alla storia degli anni Trenta e Quaranta. Sono passati quasi diciotto anni da allora, ma ancora oggi fatico a trovare nella mia vita qualcosa che, per intensità e senso, possa stare accanto a quel viaggio, che non fu solo nello spazio ma toccò dimensioni cui è quasi impossibile dare un nome. Valse per me, valse per tutti i partecipanti. La sera dell’arrivo a Cracovia, ci riunimmo in un teatro cittadino, confrontandoci su un argomento che andava persino oltre alla nostra destinazione, “Gli esseri umani tra cooperazione e sopraffazione”. Quei ragazzi, dopo oltre venti ore di viaggio discretamente disagevole, non se n’erano andati in giro per la bellissima città, nessuno di loro lo fece, scelsero di rimanere insieme a riflettere, in attesa della mattina successiva quando, reduci da un riposo notturno piuttosto breve, si sarebbero accomodati sui dodici pullman che ci attendevano per condurci ai campi di sterminio. L’indomani li incrociavo in continuazione tra i tristi viali del campo madre, poi di Birkenau e mai nessuno di loro mi diede l’impressione di essere in gita. Difficile trovare altrove quei profondi raccoglimenti che sembravano leggibili sui loro volti. Bisogna andarci, ad Auschwitz, per capire chi siamo e perché quell’orrendo precipizio appartiene anche a noi, che non ne siamo solo spettatori passivi, poiché ciò che facciamo oppure omettiamo, crimini e silenzi, ci costringono a domandarci se noi, sebbene arrivati dopo o molto dopo, siamo del tutto innocenti, se noi, quando maltrattiamo un migrante, un omosessuale o qualsiasi essere umano non siamo in continuità con quella vergogna che segnerà per sempre chiunque appartiene alla nostra specie anche se non c’era in quell’inferno dove le persone erano diventate “pezzi”, come ci raccontò proprio in quella “gita” Shlomo Venezia, che sopravvisse tagliando capelli ai condannati. Ogni tanto lo riascolto nel sobrio documentario, “La forza del ricordo”, che rimane del nostro viaggio. La sera prima, in quel teatro, non si era parlato di fascismo e di nazismo, ma di noi, della nostra natura, del male che siamo in grado di progettare e di infliggere. Nessuna tentazione ideologica, perché i ragazzi, allora come ora, non sono angusti come gli adulti, che ricoprano o meno cariche pubbliche delicate, la cui importante frazione educativa viene generalmente ignorata, generando parole in libertà. Quei ragazzi, abitanti anch’essi della stanza dei figli, con cui avrei condiviso un indimenticabile viaggio su un treno, vecchio e sgarrupato eppure assai più lussuoso di quelli sui quali venivano tradotti gli ebrei, la cui unica colpa era, appunto, quella di essere ebrei. Non ve n’erano altre, di colpe, né per il passato né, tantomeno, per il futuro. E quegli ebrei, è bene affermarlo senza riserve, non sono responsabili, non lo saranno mai, delle nefandezze perpetrate dai loro discendenti in questi mesi, che uccidono non solo al presente, ma colpiscono ancora le vittime dell’Olocausto, seminando dubbi che abili politici utilizzano per attenuare responsabilità sulle quali, invece, esistono solo certezze. Stamattina è il quattordici di ottobre del 2025, in serata nei dintorni di Udine terrò una conferenza sull’Individualismo, il male di allora, di oggi e di domani, negli stessi minuti avrà luogo a pochissima distanza l’incontro di qualificazione ai mondiali del 2026 tra Italia e Israele. I due paesi furono direttamente coinvolti nella tragedia dell’Olocausto, con ruoli opposti, loro nella parte delle vittime, noi complici dei carnefici, una parte attiva, che è puerile, ingannevole, poco limpido negare, ma soprattutto offensivo verso quei ragazzi che tutti gli anni viaggiano verso Aushwitz per “vedere” coi propri occhi e imparare ciò che non si può raccontare. Seminare confusione su quegli apprendimenti, anche attraverso silenzio di altre figure, rinnova in parte quell’atmosfera cupa e manipolatoria di allora, che precipitò il nostro paese nel punto più basso della sua storia. Tra poche ore le due squadre “giocheranno”, non si faranno la guerra, nessuno rastrellerà ghetti e non vi saranno deportazioni, ma non sarà una serata solo di sport, sono previste imponenti manifestazioni legate agli eventi della Striscia di Gaza, speriamo prive di disordini, proprio per questo mi è stato chiesto dagli organizzatori dell’evento cui partecipo di scendere dal treno a Codroipo, una trentina di chilometri prima Udine. Verranno a prendermi in auto e potremo evitare il centro. I nostri ragazzi sono un esempio per tutti, cercano di stare dalla parte giusta, in genere quella dei deboli, sia quando si va nei campi di sterminio sia quando manifestano per i bambini di Gaza. Prendiamo esempio da loro e una buona volta smettiamola di trattarli con quella sufficienza che ci rende insopportabili ai loro occhi, perché il destino del mondo si decide proprio nelle stanze dei figli. Talvolta, purtroppo, malgrado noi.

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Domenico Barrilà