Cellulare a scuola? Niente guerre, meglio parlarsi

“È dovere specifico, per ciascuno studente, non utilizzare il telefono cellulare, o altri dispositivi elettronici, durante lo svolgimento delle attività didattiche”. Per reperire l’autore di questa esortazione dobbiamo risalire il calendario di quasi venti anni. È il 2007, e così parlava il ministro alla partita di allora, Giuseppe Fioroni. I social network erano ancora agli albori, Facebook, sarebbe arrivato in Italia solo l’anno successivo, esattamente nel mese di maggio del 2008. Meno di dieci anni dopo, un sottosegretario dello stesso ministero, dell’Istruzione e del Merito, Davide Faraone, annunciò la fine dell’embargo, giacché “Per arrivare a una digitalizzazione sempre più diffusa nelle scuole, è anacronistico vietare l’uso di qualsiasi dispositivo in classe”. Questo non se lo sono inventati i ragazzi, ma l’aveva detto, in maniera netta e definitiva, il governo del tempo. Una posizione forse troppo disinvolta, oggi ribaltata radicalmente, forse troppo. È vero che solo gli stupidi non cambiano opinione, ma se vogliamo conservare la stima dei ragazzi e mantenere la nostra credibilità presso di loro dobbiamo procedere senza troppi salti logici. Tra il pronunciamento del ministro e quello del sottosegretario, i social network, oramai dotati di vita propria, quindi nessuno li aveva fermati, né l’esortazione né tantomeno il permissivismo. Quelle piattaforme si erano messe a bussare ai portoni della scuola che, come le mura di Gerico, cedettero di schianto, poi si erano accomodate in tutti gli anfratti della vita di studenti, genitori, insegnanti. Dunque, non solo in quella dei ragazzi, che si ciba soprattutto di esempi. Nessuno era in grado di prevedere cosa sarebbe potuto accadere trasferendo una bella quota del mondo reale all’interno di quelle scatole magiche, neppure i ragazzi, che assimilarono in fretta quel mutamento di Dna, non avendo sentito scattare l’interruttore tra il prima il dopo. Non c’erano durante il “prima” oppure erano troppo piccoli per poterne registrare lo scatto. I loro occhi si sono spalancati direttamente sul “dopo”, la loro normalità, che vedevano palesarsi nel comportamento dei loro genitori e dei loro insegnanti. Era un mondo, quello degli anni Zero e Dieci di questo secolo, alla cui fondazione i ragazzi di oggi non avevano partecipato, ma vi si sarebbero innamorati in maniera totale, un mondo creato e frequentato dagli adulti, gli stessi coi quali avrebbero poi ingaggiato un braccio di ferro sulle regole del gioco. Le parole pronunciate nel 2007 dal ministro di allora, erano una sorta di moral suasion, un invito a darsi tutti una regolata. In fondo la “colonizzazione” era agli albori e nessuno sapeva dove avrebbe potuto condurre. Scenario completamente diverso quello che ispirerà la decisione governativa un paio di lustri dopo, che definiva “anacronistico” l’embargo. La penetrazione della tecnologia digitale aveva assunto un passo vertiginoso e, nel dubbio, si era deciso di aprire la porta all’ospite, ancora una volta senza chiedergli il passaporto e senza avere chiari gli effetti che avrebbe potuto provocare la sua presenza. Adesso è entrato a regime il provvedimento, che estende anche alle superiori il divieto di utilizzo dei telefonini, cancellando ogni forma di bidirezionalità con gli studenti. Eppure, avviare un confronto sereno con i ragazzi che frequentano le superiori, sarebbe stato pedagogicamente quasi rivoluzionario. Avrebbe fatto bene a tutti parlarsi, ascoltare le reciproche ragioni, tra generazioni cresciute in contesti ambientali incomparabili e quindi destinate ad allontanarsi sempre di più, soprattutto se gli adulti persisteranno nei propri abusi di soggettività, spesso improntati al nostalgico rimando ai “nostri tempi”, un’età dell’oro che in realtà nessuno ricorda davvero. Un comportamento a cui nessuno sfugge. Quando sono invitato a tenere una conferenza che riguarda i ragazzi, questi non sono “previsti”, come se si trattasse di un processo in contumacia, si parla di loro ma i diretti interessati non ci sono. In genere gli adulti si riuniscono, decidono un tema che sta loro a cuore, invitano un relatore e si parte. Noi adulti abbiamo delle convinzioni sui “loro” mondi che spesso sono le “nostre” convinzioni, accade anche a chi fa il mio lavoro di incappare in questo pregiudizio, pure al sottoscritto che, sebbene sia rimasto sempre a contatto coi ragazzi, inizia a percepire qualche “scollamento”, che non deve essere fonte di sgomento e nemmen di recriminazioni ma di domande, a noi stessi e, non sarebbe male ai ragazzi, prima sedotti con i gingilli di un mercato aggressivo, quello delle nuove tecnologie, e poi “normati” senza uno straccio di confronto. Se non si parte dalle domande, la vicenda dei telefonini, giusta o sbagliata che sia, si risolverà in un gigantesco gioco a guardie e ladri, perché i ragazzi sono già, come sempre, alla pagina successiva. Chiedo a una diciassettenne che frequenta il liceo classico come funziona nella sua classe l’applicazione della norma sui telefonini. Ride, poi mi dice che li consegnano prima dell’inizio delle lezioni, ma in realtà molti compagni consegnano un vecchio telefonino e si tengono in tasca quello in uso, acceso e silenziato. Aggiunge che tra non molto nessuno si ricorderà del divieto. Vedremo. Un ragazzo che quest’anno sosterrà gli esami di maturità dice che lui consegna senza problemi il telefono, tanto al polso tiene accesso lo Smart Watch, dal quale risponde ai messaggi ricevuti. “Sappiamo che ognuno di noi troverà gli escamotage per continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto”. “Ieri mattina -racconta una ragazza di terza superiore- avevo litigato con il mio fidanzato. In genere ci chiariamo durante la giornata, le cose si aggiustano e io mi tranquillizzo, ma stavolta ero senza cellulare e sono stata in angoscia fino all’una. Mi è venuto anche un violento attacco di ansia in classe, che sono riuscita a mascherare con fatica”. Sarà anche una dipendenza, ma l’hanno imparata da noi, se cominciamo a guarirne noi avremo il diritto di decidere per loro. Giovedì scorso era in viaggio verso Padova, la città dove mi ero laureato tanto tempo fa. Davanti a me e mia moglie era seduto un ragazzo di vent’anni, appena uscito dalle superiori, ci siamo messi a chiacchierare della comune sede di studio. Siamo rimasti ammirati, ma non stupiti, dal senso di responsabilità, dalle idee chiare sul presente e sul futuro, un tardo adolescente più adulto di tanti adulti a cui, se fosse stato in quinta quest’anno, avrebbe dovuto consegnare il telefonino. Io non avrei avuto il coraggio di chiederglielo. Nessuno, tantomeno gli psicologi, può sbandierare soluzioni definitive, magari prendendo a riferimento i propri figli, ma se ci ricordassimo che i ragazzi non sono una specie satellite e, soprattutto, non sono una specie omogenea, avremmo imboccato la strada giusta, perché impareremmo a parlare con loro prima di decidere “su di loro”. Migliorerebbero tante cose. Più di quante si immagini. Domenico Barrilà, analista adleriano e scrittore, rappresenta una voce autorevole nel panorama della psicologia italiana. È autore di una trentina di volumi, tutti ristampati, molti tradotti all’estero. Tra questi ricordiamo “I legami che ci aiutano a vivere”, “Quello che non vedo di mio figlio”, “I superconnessi”, “Tutti Bulli”, “Noi restiamo insieme. La forza dell’interdipendenza per rinascere”, tutti editi da Feltrinelli, fino ai recentissimi “Volere Bene. La mente e il cuore” e “Individualisti si cresce" . Nella sua produzione sono presenti il romanzo di formazione “La casa di Henriette” e la collana illustrata di psicologia “Crescere senza effetti collaterali” , quest’ultima tradotta in diversi paesi, ultimo dei quali la Cina. È autore del blog di servizio, per educatori, https://vocedelverbostare.net/

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Domenico Barrilà